Moebius

Moebius

giovedì 31 marzo 2005

dentro un barattolo

Mi sento chiuso in un barattolo, chi mi fa uscire? Sapete il mondo dietro uno strato di vetro non è bellissimo, mi manca un po' d'aria... Ho vogli di uscire da questo barattolo, sbattetelo per terra, se necessario, tirate un sasso, qualsiasi cosa.

Si vota, ci tocca

È arrivato il momento di parlare delle prossime elezioni regionali. Non che ne abbia molta voglia però, diciamo, che mi tocca. Ho accuratamente evitato di parlare di quello che è successo nella mia regione nelle settimane scorse, con le firme false della lista della Mussolini, o con le polemiche sul nonno di Storace, a causa della negligenza di un giornalista dell’Unità, per non parlare dell’anomalia di vedere candidato per il centro-sinistra il signor Mimandaraitre, Piero Marrazzo (ma nel Lazio sembra essere d’obbligo candidare un giornalista: Badaloni fu presidente della Regione dal ’95 al 2000, quando perse contro Storace).

Di queste polemiche, meglio non parlarne che se ne è già detto troppo. Però un dubbio io lo pongo: ma come facevano Storace e i suoi a sapere delle firme false (sennò non avrebbero fatto l’incursione pirata nei terminali del Comune)? Per quanto Storace cerchi di passare per vittima, dopo che si sia messo in mezzo il nonno, per me, qua nel Lazio faremo la fine della Florida nelle elezioni presidenziali del 2000. Spero tanto di no, ma l’aria che tira… Per non parlare del fatto che già si dice che molto probabilmente dopo quello che è successo le elezioni nel Lazio verranno annullate. Aspettiamoci di tutto.

 

Ma le elezioni si avvicinano, e i muri delle nostre città si riempiono sempre di più di inutili manifesti elettorali (che formano uno strato di un metro buono, manifesto su manifesto). E allora per chi votare? Beh, si voterà per Mimandaraitre, questo passa il convento, perché per quanto si cerchi di dire, da parte della maggioranza di governo, che le elezioni regionali non hanno rilevanza politica, alla fine che può fare l’elettore medio se non votare per il candidato della coalizione che predilige? Penso che molto pochi saranno quelli che voteranno in base ai programmi (io stesso non mi sono interessato troppo alla questione: indipendentemente da quello che mi promette Storace per questa regione, governata finora di merda, non potrei mai votare per lui, sennò mi verrebbe l’orticaria, e avrei rimorsi di coscienza per l’eternità).

È questo il problema che mi pongo. Nessuno sa che cosa promettono i vari candidati, perché tanto ogni tornata elettorale viene letta sempre in chiave di politica nazionale, e il povero elettore medio che deve fare? Magari in questi giorni cerco di informarmi.

 

Però andateci a votare, anche turandovi il naso come diceva Montanelli, e possibilmente fate in modo di far venire qualche mal di pancia a Berlusconi e ai suoi, non solo nel Lazio. Poi per il prossimo anno ne riparleremo… Tanto state certi che il 4 aprile diranno tutti che hanno vinto, in un modo o nell’altro. Ma chissà che non ci sia qualche terremoto (politico sia chiaro).

mercoledì 30 marzo 2005

Un luogo d'immaginario

«Il World Trade Center era già in costruzione, le torri gemelle già svettanti, con le gru inclinate sulla sommità e i montacarichi che salivano lungo i fianchi. Klara lo vedeva dovunque andasse praticamente. Mangiava, beveva un bicchiere di vino e poi andava verso la balaustra o il bordo piatto e di solito la costruzione era lì, cospicua sull’estremità affusolata dell’isola, e un uomo le si avvicinò una sera, presto, a un cocktail sul tetto di un palazzo di una galleria – un uomo sui sessanta, pensò Klara, corpulento e mascelluto ma con una sua eleganza, sicuro di sé, riservato e distinto, un solido esemplare di europeo.

-Io lo vedo come una cosa sola, non due, - disse Klara, - Anche se chiaramente le torri sono due. È una singola entità, non è vero?

-È una cos terribilissima ma non si può fare a meno di guardarla, credo.

-Sì, non si può farne a meno»

 

Don DeLillo – Underworld (1997)

 

Image of the twin towers of the World Trade Center. Photo credit: unknown -- this image arrived in my in box.


 


 


 


 


 


 


 


«-Parlami di New York, - disse lui. - Ormai non ci vado più. Quando penso alle città dove ho vissuto, vedo degli enormi quadri cubisti.

-Ti dirò quello che vedo io.

-Quell’angolosità, quella densità, le vecchie sfumature brunastre e il modo in cui le città invecchiano e si macchiano nella mente come mura romane.

-Vedi, dove abito io, c’è un caos di tetti, un guazzabuglio, quattro, cinque, sei, sette piani, ed è un alternarsi di cisterne d’acqua, corde del bucato, antenne, abbaini, comignoli, tutto ciò che è umano nella parte bassa dell’isola, piccoli giardini rannicchiati, sculture, insegne dipinte. E io apro gli occhi su queste cose, le amo, per me contano. Ma tutto questo lo spazzano via per poter costruire le loro torri.

-Vedrai che anche le torri finiranno per sembrare umane e locali e caratteristiche. Basta che gliene lasci il tempo.

-Adesso mi metto a picchiare la testa contro il muro, dimmelo tu quando smettere.

-Poi non saprai cosa ti ha fatto impazzire.

-Ho già il World Trade Center.

-Ed è già innocuo e senza età. Con un’aria dimenticata. E pensa quanto potrebbe essere peggio.

-Cosa? - fece lei.

-Se ci fosse una torre invece di due.

-Vuoi dire che interagiscono. Che c’è un gioco di luce.

-Ma non credi che sarebbe molto peggio una torre sola?

-No perché io protesto solo in parte per la dimensione. La dimensione è micidiale. Ma averne due è come un commento, è come un dialogo, solo che non so cosa si dicono.

-Si dicono “buona giornata”.»

 

Don DeLillo – Mao II (1991)

martedì 29 marzo 2005

Il naso nella schiuma

Una serata tra buoni amici, tutti colleghi o ex colleghi di università. Sapete com’è, io ancora ci sto dentro, ma c’è anche chi ne è già uscito da quel tunnel che si chiama tesi, e pure da parecchio tempo. E la cosa strana è che ci vediamo raramente, ma lo facciamo sempre in occasione della laurea di qualcuno o in prossimità. Quasi che ci si faccia coraggio a vicenda, fra chi ha comunque vissuto insieme una porzione importante di tempo, fra lezioni e preparazione degli esami.

Però, cavolo, non potete chiedermelo voi “che farai dopo?”. Vi prego, ci siete già passati o ci state passando, sapete quanto è brutto non avere idea di cosa fare. E a me, poi, che sono in crisi di mio mi chiedete ‘sta cosa? No, siete proprio scorretti. Fortuna che avevo una buona birra chiara tedesca artigianale (di cui non ricordo il nome) che mi ha sorretto nel confronto, naso dentro la schiuma.

E poi non hanno tutti i torti qualcosa dovrei fare, dopo, o no? Mica si finisce dopo aver discusso la tesi. Magari…

 

Però a volte fra due chiacchere e una buona birra si sta bene comunque, e magari si pensa a parlare con i propri amici, a sentire le loro storie e a riaggiornare le varie vicende, dopo che per un po’ ci si è persi di vista (ci si sente sempre troppo poco). E allora fra qualche citazione dei Simpson e di Guerre Stellari, a parlar male della riforma della costituzione e di amenità varie, si riesce pure a non pensare al fatto che l’assistente che ti segue ti abbia detto di fare non poche correzioni alle ultime parti di tesi che le hai fatto leggere, e che probabilmente visti certi appunti anche quello che ancora non ha letto non andrà troppo bene. Ok, ho detto l’altro giorno che devo sforzarmi di essere ottimista. Ci provo, però sapete come va la testa. Forse è meglio rimettere il naso dentro la schiuma della birra.

 

Ora devo pure andare dal medico, che sto male da una settimana e sto sempre uguale, forse sono lentamente peggiorato.

domenica 27 marzo 2005

Associazione di idee

Voglio essere ottimista. Devo ottimizzare il tempo. Il tempo va colto. Cogli l’attimo, perché può darsi che ti porti in posti che non avresti mai pensato. Pensi, quindi sei. Sono proprio perché penso. Spesso penso troppo. A volte dovrei pensare un po’ di meno e lasciarmi andare, magari spegnendo il cervello per due minuti. In quei due minuti andatevene nel posto preferito, chiudete gli occhi, riapriteli e cominciate a correre. Correte finché ce la fate, senza pensarci troppo. Se correte sulle ali della fantasia anche i vostri piedi prima o poi li ritroverete un po’ più avanti. La fantasia ci fa essere ottimisti, quindi, ottimizzare il nostro tempo, e coglierlo. Dalla fantasia viene il pensiero. Voglio pensare ed essere fantasioso allo stesso tempo. Che viene prima?
Sono tornato a postare qualche recensione di libri e film dei mesi scorsi. chi passa di qua abitualmente probabilmente le ha già lette, ma se trovate qualcosa di vostro gradimento nulla vieta che ridiate un'occhiata a questa roba... Se non le avete lette, beh, può darsi qualche consiglio su un bel libro da leggere, non si sa mai, provare per credere

Crash, di James G. Ballard

(post del 4/10/2004)

 

«Il matrimonio tra ragione e incubo che ha dominato il ventesimo secolo ha generato un mondo sempre più ambiguo. Il paesaggio delle comunicazioni è attraversato dagli spettri di sinistre tecnologie e dai sogni che il denaro può comprare. Sistemi d’armi termonucleari e pubblicità televisive di bibite coesistono in un mondo sovrailluminato che ubbidisce alla pubblicità e agli pseudo-eventi, alla scienza e alla pornografia. Alle nostre vite presiedono i due grandi leitmotiv gemelli del ventesimo secolo: sesso e paranoia. Né la soddisfazione di McLuhan per i mosaici informativi ad alta velocità può farci dimenticare il profondo pessimismo espresso da Freud in Il disagio della civiltà. Voyeurismo, disgusto di sé, la base infantile dei nostri sogni e dei nostri desideri – questi mali della psiche sono ora culminati nella perdita più atroce del secolo: la morte del sentimento.

Questa dipartita ha spianato la strada a tutti i nostri piaceri più concreti e delicati – quelli delle delizie del dolore e della mutilazione; del sesso come arena perfetta, come brodo di coltura di sterile pus, per tutte le veroniche delle nostre perversioni; della libertà di attendere alla nostra psicopatologia come a un gioco; dell’illimitatezza delle nostre capacità di concettualizzazione. Ciò che i nostri figli hanno da temere realmente non sono le autostrade del domani, bensì il nostro sottile piacere nel calcolare più eleganti parametri delle loro morti».

 

J. G. Ballard – Postfazione a “Crash”

 

 

Chi si dovesse chiedere quale sia il significato di un libro come Crash, libro scritto nel 1973, può leggere la postfazione allo stesso libro, scritta dal suo autore nel 1974, di cui ho riportato il brano iniziale.

Crash è un romanzo che il suo stesso autore definisce di fantascienza e pornografico.

 

Il romanzo racconta le vicende di una serie di personaggi che risolve la propria vita nei suoi atti sessuali, a cominciare dal narratore e protagonista, James Ballard (ma non credo che il romanzo sia autobiografico; forse solo a livello metaforico, ma non è importante). Dopo uno o più incidenti d’auto i protagonisti per continuare a “vivere” si attaccano in maniera morbosa all’oggetto dei loro guai, l’automobile appunto, su cui riversano ogni frustrazione ma anche ambizione sessuale. L’automobile diventa metafora del mondo moderno, simbolo della sua tecnologia con la quale entriamo quasi in simbiosi quotidianamente. E da qui nasce anche la morbosa passione per le morti in auto famose (James Dean, Kennedy, ecc.), tema che Ballard aveva già sviluppato in La mostra delle atrocità (che può considerarsi un prologo e un compendio teorico a Crash), in cui l’autore (soprattutto nelle note, che rendono il libro leggibile, sennò non lo sarebbe) spiega le relazione fra la tecnologia, i media, i personaggi dei media e che fanno parte del nostro immaginario, e quindi come si forma il nostro immaginario.

 

È un romanzo fantascienza, Crash, anche se non parla di astronavi, alieni, mondi virtuali ma di incidenti d’auto, di amplessi, e delle nostre paure inconsce che vengono esorcizzate nel connubio fra la tecnologia e la materia umana più ancestrale, il sesso, che prelude ad una fusione dell’uomo con la tecnologia. È un romanzo di fantascienza perché il suo autore ha cominciato con la fantascienza ed è da considerarsi il massimo esponente della new wave, che molto ha contribuito a sdoganare la fantascienza (al punto che chi non conosce Ballard e non legge la suddetta postfazione difficilmente interpreterebbe questo romanzo come un romanzo di fantascienza).

Ma il suo essere un romanzo fantascientifico sta proprio nel descrivere una vicenda assolutamente irreale (forse iperreale) in cui l’autore parla della nostra epoca, delle nostre paure, e del modo in cui viviamo il nostro mondo. Ed è un romanzo fantascientifico per quello che si è detto, per il suo proclamare un connubio fra la tecnologia (nello specifico l’automobile, ma il discorso è più generale) con la fisicità dell’uomo, che si realizza in tutta una serie di atti sessuali realizzati in auto, più o meno devianti. E questo aspetto (la fusione, seppur a livello metaforico, dell’uomo con la tecnologia) fa comprendere perché Ballard venga spesso e volentieri citato come uno degli autori a cui il cyberpunk ha guardato di più e lo cita come modello.

È un romanzo pornografico… beh, lo avrete capito il perché. Il romanzo descrive tutta una serie di atti sessuali da un punto di vista meramente meccanico, come una serie di ingranaggi e di liquidi che entrano in contatto: non c’è sentimento, non c’è umanità, è la vita moderna stessa ad essere “pornografica”.

 

 

54, dei Wu Ming

(post di ottobre 2004)

 

Giorni fa avevo postato una recensione su un bel romanzo di Philip Roth, Pastorale Americana, dicendo che è un libro di quelli che vanno letti con calma, poche pagine al giorno, almeno per i miei gusti e ritmi di lettura. Questo sia perché il ritmo del romanzo, molto riflessivo e introspettivo, lo richiede sia perché ci sono libri che alla fine non si può non dire che siano belli ma che non “prendono” al punto da mettersi a leggere ossessivamente.

 

Ci sono libri invece che leggi in pochi giorni ma che poi alla fine non lasciano niente e, ancora, libri che divori perché fantastici. E proprio un libro fantastico ho letto in questi giorni, in cui ho macinato le oltre 650 pagine in meno di una settimana.

E un libro fantastico e che ho letteralmente divorato è 54 dei Wu Ming, gruppo volutamente anonimo di scrittori (che anonimi lo restano anche nei loro romanzi individuali) che ho cominciato ad amare da questa estate con Q (pubblicato a nome di Luther Blisset), di cui ho avuto già modo di parlare e che poi ho continuato con Havana Glam, di Wu Ming 5.

Dico subito, per non doverci tornare sopra, che Q è senza dubbio un lavoro inarrivabile per forza narrativa e per presa sul lettore ma 54 è anch’esso un libro che vi consiglio di leggere vivamente, e che devo aggiungere alla lunga lista dei miei libri preferiti.

 

Il romanzo di cui vi parlo si svolge tutto nell’anno 1954, un anno cruciale della nostra storia contemporanea perché molte cose sono accadute e di cui questo romanzo parla direttamente o indirettamente, prendendo la Storia come cornice di una narrazione che però nella Storia (e lo scrivo volutamente con la “S” maiuscola) è immersa, e non potrebbe essere diversamente. E questo anche quando la si inserisce in una vicenda fantascientifica di viaggi nel tempo e di storia alternativa come Havana Glam.

Verso la fine del libro si legge questa frase che riassume molto il progetto Wu Ming: “Guardò oltre il vetro e ancora una volta, come ogni giorno, si sentì parte di un grande ingranaggio. Parte della Storia”. Questo gruppo di scrittori costituisce una “azienda di servizi narrativi” e la definizione è quanto mai calzante, e va letta in positivo. Il lavoro di gruppo mira a raccontare vicende che siano immerse nella Storia, nei fatti realmente accaduti, andando a scomodare personaggi realmente esistiti, perseguendo l’idea base che ogni vicenda non è a sé stante ma ha un contorno che non si può ignorare.

I loro romanzi allora rielaborano, spiegano e rileggono fatti che stanno nei libri di storia ma soprattutto li contestualizzano fornendo sempre un ritratto d’epoca, mostrando come le grandi vicende lascino traccia nelle vite della gente comune e, soprattutto, come le vicende di personaggi insignificanti per la Grande Storia possano però avervi parte anche se rimangono sconosciute ai più.

Una massima che ritroverete sempre applicata nei loro romanzi è che siamo tutti solo figure di sfondo allo scorrere della Storia, di cui comunque tutti facciamo parte.

 

Storia e fiction si mescolano abilmente, secondo regole e criteri che regolano il lavoro di Wu Ming al fine della narrazione di vicende a volte realistiche, altre assolutamente fantastiche, altre ancora surreali. Sembra quasi di assistere ad una narrazione manzoniana, in cui una sorta di provvidenza presiede alle vicende dei protagonisti, vicende che, come detto, vedono fianco a fianco personaggi fittizi e personaggi realmente esistiti. E il libro è pieno di citazioni e di riferimenti che danno ulteriore piacere alla lettura quando si colgono, e chissà quanti me ne sono persi io.

 

Il 1954 è l’anno della grande offensiva dell’esercito di Ho Chi Min contro i francesi in Indocina (e gli USA cominciano a ficcarci il naso). È l’anno in cui nasce il KGB. L’anno del ritorno di Trieste all’Italia (si sono festeggiati i 50 anni proprio in questi giorni, e questa vicenda sarà molto importante nel libro). L’anno in cui il maccartismo in America raggiunge il suo culmine e vede la fine. L’anno in cui muore De Gasperi. L’anno in cui nasce la prima centrale atomica sovietica (e si può dire che lì comincia la guerra fredda). L’anno in cui in Italia per la prima volta si discute di un grande caso di cronaca, il caso di Wilma Montesi.

Soprattutto, e non scherzo, è l’anno in cui nasce in Italia la televisione, che sarà uno degli elementi di maggior sviluppo, e in positivo, del nostro paese.

 

Tutte vicende che i protagonisti del romanzo sfiorano o ci si ritrovano in mezzo senza neanche saperlo. Così ci sono ex-partigiani, chi gestisce un bar, chi è andato a fare la rivoluzione in Jugoslavia, chi è fuori dal partito comunista e si dedica a traffichi illeciti, chi era troppo giovane allora e vorrebbe trovare un senso alla propria vita come il padre e il fratello. C’è il vecchio Lucky Luciano in esilio a Napoli, che gestisce il traffico mondiale della droga. C’è Cary Grant che sono due anni che non fa un film perché depresso a cui viene offerto un incarico particolare; e c’è il suo amico “Hitch” che gli propone di fare un film in Costa Azzurra insieme a Grace Kelly. C’è il generale Serov, direttore del neonato KGB. C’è Josip Broz, alias Tito, che il PCI vede come un fascista perché in rotta con Mosca. E ci sono Pierre, giovane ballerino, re della Filuzzi (che presumo sia un ballo), i clienti del Bar Aurora gestito da lui e da suo fratello Nicola, ex-partigiano; c’è Vittorio, il padre dei due, che sta in Jugoslavia ma non se la passa bene. C’è “Kociss”, guaglione che si ritrova nei guai. E tanti altri personaggi che fanno di questa storia un romanzo corale, dove ognuno ha la sua parte nel grande gioco, pur senza saperlo. E personaggi si aggiungono fino alla fine, quando in Messico incontriamo un certo avvocato cubano che arringa la folla parlando di rivoluzione.

C’è spazio anche per Gulliver, un piccione viaggiatore, e per McGuffin, un televisore americano che passa di mano in mano.

 

Un gran romanzo, che si legge senza problemi e tutto di un fiato (e secondo me è il modo migliore di leggerlo), immergendosi nelle spire della narrazione, che è un po’ thriller e spy story, un po’ romanzo storico, un po’ romanzo sui sentimenti e sui valori. È il ritratto di un’epoca, in cui troviamo le basi del nostro mondo di oggi.

Daunbailò, di Jim Jarmusch

Jack: Aaaahhh!

Bob: What are do you doing?

J: This is... “screaming”

B: Scriming... Ai nò scriming

[Bob guarda il suo notes con tutta la sua “conoscenza” dell’inglese]


B: Scriming… Aiscrim! Ai scrim, iù scrim, i scrim... for the aiscrim!

 

Questa è la trascrizione (molto approssimativa) di uno dei surreali dialoghi che avvengono in cella fra Roberto detto Bob perché “is the same” (Roberto Benigni), Jack (John Lurie) e Zack (Tom Waits), i protagonisti di Daunbailò (Down by law nella versione originale) di Jim Jarmusch (regista che adoro: guardatevi Dead Man e Ghost Dog).

Bob è un italiano che si trova in America per imprecisati motivi. Ma sa soltanto un inglese molto maccheronico che sta scritto sul suo taccuino. Jack è un pappone che però non sa fare molto bene il suo lavoro, che neanche picchia le sue ragazze. Zack è un dj radiofonico disoccupato che  stato lasciato dalla ragazza. Che cosa li unisce? Niente, semplicemente che si ritrovano in cella nella prigione di New Orleans, Jack e Zack sono innocenti e sono stati incastrati (ma in prigione sono tutti innocenti, no?), Bob è un “bonaccione” ma lui ha davvero ucciso accidentalmente un uomo.

Questi tre personaggi intrecciano allora una amicizia di cella che li porta a tentare la fuga dal carcere alla ricerca della libertà, e ognuno ha la propria libertà da trovare.

 

È un film che si regge molto sull’interpretazione dei tre, di cui solo Benigni è un attore professionista, visto che Lurie e Waits sono musicisti affermati (e hanno curato il primo le musiche del film, e il secondo le canzoni che più che cantare recita un po’ fra l’ubriaco e lo strafatto…) che è veramente molto bella perché assolutamente poco realistica, ognuno con i propri tic, i propri gesti, il proprio sguardo.

E naturalmente la regia di Jarmusch che è, come sempre, essenziale e senza fronzoli ma bellissima. Jarmusch è uno di quei registi che fanno sempre vedere la propria mano nei loro film, con inquadrature sempre studiate, mai casuali, con un risultato anche estetico sempre molto bello. In particolare sono belli alcuni piani-sequenza con la macchina in movimento e il montaggio interno dell’inquadratura (le posizioni dei personaggi, le scenografie, le luci e tanti piccoli particolari).

Questa regia così essenziale nel senso che c’è tutto quello che deve esserci accompagnata ad una bellissima fotografia in bianco e nero (una delle più belle che abbia mai visto, veramente) aumenta il senso di straniamento di tutto il film, che si svolge a New Orleans e in Louisiana ma potrebbe essere in realtà un posto qualsiasi.

 

La storia dei tre protagonisti diventa così surreale da essere un sogno ad occhi aperti che si lascia guardare proprio per quello che è. E da un sogno sembrano uscire alcuni dialoghi con Benigni che si esprime un po’ in inglese (molto maccheronico, come sopra) e un po’ in italiano (il film l’ho visto in lingua originale, perché il DVD non aveva la traccia in italiano: meglio così devo dire) e che crea quindi delle situazioni comiche basate sul calembour, come il dialogo che ho riportato sopra.

 

Questo film del 1986 (che è ri-uscito in versione rimasterizzata un paio di anni fa) è davvero un gioiello che merita di essere visto. A me è piaciuto tantissimo, e nonostante ami già molto i film di Jarmusch mi ha comunque stupito in positivo per la grande qualità cinematografica del film e per il suo raccontare una vicenda che da un certo punto in poi ha poco di reale, ed amo da morire queste storie surreali ed oniriche.

 

 

 

 

Havana Glam, di Wu Ming 5

(post del 16/9/2004)

 

Se invece della guerra preventiva si desse vita alla guerra retroattiva? In fondo pensando a quanto succede in questi anni, non è mica una ipotesi così peregrina quella che Wu Ming 5 propone nel suo romando Havana Glam, che sto leggendo in questi giorni. Wu Ming 5 è uno dei componenti dell’ “azienda di servizi narrativi” Wu Ming, e questo è un romanzo scritto solamente a due mani…

 

Nel 2045 il governo degli Stati Uniti è riuscito ad ottenere la possibilità di viaggiare indietro nel tempo; ed il viaggio nel tempo è, come un secolo prima la Bomba Atomica, l’Arma Finale per assicurare la vittoria definitiva degli Stati Uniti non in una guerra ma… nella Storia.

E questo romanzo è un viaggio nel tempo, appunto, nella nostra vera storia contemporanea ma anche in una storia alternativa che avrebbe potuto essere e non è stata (niente di nuovo, ovvio. Lo stesso Dick con L’uomo nell’alto castello aveva descritto un mondo in cui la seconda guerra mondiale era finita al contrario, con la vittoria dell’Asse). Un viaggio che entra a fondo anche nel nostro immaginario, nella nostra cultura pop (incontriamo Bob Marley e David Bowie, tanto per fare un esempio…) fatta di tante cose, dalla musica alla tv al cinema (attraverso cui gli inviati indietro nel tempo studiano la vita di un secolo prima…); è un viaggio all’interno della politica del nostro mondo contemporaneo, perché ogni romanzo che parla del futuro (e in questo caso del passato e del presente…) parla anche del mondo di oggi.

 

In seguito ad una guerra nucleare totale (niente di originale, ma la forza di questo libro è che prende elementi ampiamente sviluppati nella letteratura e nel cinema di immaginario e li rielabora) gli Stati Uniti hanno perso il loro ruolo egemone; e l’unico modo di mantenerlo nel presente (del 2045) e nel futuro sarebbe quello di modificare il passato facendo iniziare il piano Totality, per il bombardamento atomico dell’Unione Sovietica. Così «Niente Unione Sovietica, niente guerre di liberazione contro le potenze coloniali. Niente guerre di liberazione, niente Vietnam. Niente Vietnam, niente controcultura. Niente hippie, pantere nere, eccetera, niente 1968 europeo e 1977 italiano. Niente 1977 italiano niente Grande Movimento Popolare. Niente Grande Movimento Popolare, niente Carlo Wilhelm, Guardie d’Assalto e guerra atomica del 2022.» (nello specifico: è la Repubblica Popolare Italiana, di stampo marxista, a provocare la guerra…).

 

È la filosofia della guerra preventiva estesa anche al passato. E notate che il libro è del 2001, quindi molto probabilmente scritto prima dell’11 settembre e dell’affermazione della dottrina Bush (tra le altre cose è significativo, ed esilarante per chi coglie la citazione, un passaggio in cui parlando del presidente-filosofo del 2045, si dica come in passato ci siano stati presidenti anche più colti «e presidenti che non sapevano indicare la Serbia sulla cartina», nota gaffe in cui cadde G. W. Bush durante la campagna presidenziale del 2000).

 

Però (e questo è l’interrogativo che rende affascinante il libro), è possibile che un’agente esterno, proveniente da un’altra epoca possa cambiare il corso della Storia? Forse può semplicemente cambiare la storia… Perché un tema tipico delle storie sui viaggi nel tempo è la possibilità di creare un diverso continuum spazio-temporale ma, almeno fin dove sono arrivato io, questo non è possibile, o meglio non si sa se sia possibile. Nasce un nuovo continuum di realtà? E allora avremo tante realtà tutte diverse per ogni viaggiatore nel tempo che manderemo indietro? E se ci sono più realtà con le quali dobbiamo confrontarci, sono tutte egualmente vere?

Oppure più semplicemente già il mandare indietro qualcuno cambia impercettibilmente il continuum per cui quello vissuto nel presente è un continuum diverso da quello che esisteva prima del viaggio indietro nel tempo ma noi non lo sapremo mai perché per noi quello è il nostro continuum (il discorso è contorto ma è il tema stesso ad essere contorto…). E tutti gli altri mondi possibili che fine hanno fatto? Domande queste a cui la metafisica e la fisica (da Einstein in poi) hanno cercato di dare risposta ma non è che sia così facile. Inventiamola la macchina nel tempo (che tra l’altro nel romanzo funziona grazie ai poteri psichici di un empata, un essere simile in qualche modo ai precog di Dick, come in Minority Report) e poi ne riparleremo.

 

Alla fine la domanda che rimane è quella del titolo: e se George Dabliù avesse la macchina del tempo?

 

 

Fahrenheit 9/11, di Micheal Moore

(post del 30/9/2004)

 

Finalmente anche io sono andato a vedere Fahrenheit 9/11! Era ora. Ma ne è valsa la pena aspettare e riuscire ad andarci comunque col mio amico Dottore (perché già laureato).

Che dire di questo film quando già si è detto tutto? Innanzitutto che è un grandissimo film e non solo nel genere documentaristico (e penso che la Palma d’Oro di Cannes sia stata meritatissima, indipendentemente da tutte le polemiche politiche) e che tutti dovrebbero vedere per capire un po’ di più dell’attuale situazione mondiale.

Certo, il film è fazioso, ma non è una novità conoscendo Micheal Moore. Ed è pure giusto così perché il cinema può svolgere un ruolo importante nel formare le opinioni, e un film politico come questo potrebbe aver aperto gli occhi a qualcuno. Il problema è che essendo il film di parte probabilmente in America chi è pro-Bush neanche è andato a vederlo. Speriamo che l’opera di delegittimazione di Bush da parte di Moore, cominciata due anni fa con il libro Stupid White Man che è stato un successo editoriale anche in Italia, abbia buon esito quando fra poco più di un mese in America ci saranno le nuove elezioni.

 

Sono entrato a vedere Fahrenheit sapendo già come andava a finire (cioè con il pantano iracheno), speriamo che l’altro film, quello tragi-comico in cui uno stupido figlio di papà texano diventa presidente degli USA, non finisca come è molto probabile. Perché più passa il tempo e più divento pessimista per il futuro del mondo… Speriamo che il popolo americano si svegli!

 

Ma veniamo al film. Oltre ai contenuti apertamente (per usare un eufemismo) anti-Bush (soprattutto i documenti che dimostrano i rapporti di Georgedabbliù con la famiglia Bin Laden (in particolare Salem Bin Laden), con cui ha intrattenuto rapporti d’affari negli anni ’80 con la società petrolifera Arbusto (ma è una storia ampiamente dibattuta sui giornali di tutto il mondo), o quelli che mostrano la “diserzione” di Bush che durante la guerra del Vietnam si è rifugiato nella guardia nazionale) il film è bello proprio cinematograficamente parlando.

 

Il film inizia con un prologo in cui si racconta la vicenda delle presidenziali del 2000 quando in Florida successe di tutto alle urne, roba da paese del terzo mondo e da mandarci gli ispettori internazionali a vigilare sull’esito delle elezioni di quest’anno. Ma la storia è nota: la cosa più scandalosa è il fatto che di fronte alle interpellanze al Congresso di deputati afro-americani per protestare contro la cancellazione dalle liste elettorali di 16.000 afro-americani (che difficilmente avrebbero votato per Bush) nessun senatore abbia controfirmato la richiesta di indagine, neanche democratico (a quanto ho capito il regolamento prevede la firma di membri del Congresso e del Senato per cose del genere). Da lì è cominciato tutto, da elezioni in cui Bush ha preso meno voti del suo avversario, anche in Florida, ma in cui la Corte Suprema per porre fine alla storia ne ha decretato la vittoria.

 

Una sequenza significativa è quella in cui la mattina dell’11 settembre Georgedabbliù è in una scuola della Florida a leggere favole ai bambini e non muove un ciglio di fronte alla notizia di quello che è accaduto a New York. Passano 7 minuti prima che qualcuno lo prenda di peso e lo costringa a rendersi conto che è accaduto qualcosa di storico. Come si chiede Moore, cosa pensava in quei sette minuti in cui GWB ha mostrato tutto il suo essere un idiota?

Probabilmente alle informative dei servizi segreti che non ha letto perché dal titolo troppo vago (tipo “Bin Laden progetta di attaccare gli Stati Uniti”), o forse al fatto che lui era in affari con la famiglia Bin Laden; o ancora che tutto l’esecutivo americano aveva le mani in pasta in tante aziende belliche americane (e in una pure i Bin Laden!) che era giunto il momento di far lavorare per attaccare Saddam, o a come far scappare dal paese oltre cento sauditi mentre i voli erano tutti bloccati, fra cui anche 24 membri della famiglia Bin Laden…

 

Sono tutte cose di cui si è ampiamente parlato e nessuna di queste storie è nuova. Ma nuovo è il contesto in cui Micheal Moore ce le ricorda. Perché costruisce un impianto perfettamente legato e anche chi non vuole vedere non può certo tapparsi gli occhi. Il film sarà fazioso ma certi fatti sono veri e comprovati, niente da dire. Ma nonostante questo gli americani probabilmente rivoteranno per Georgedabbliù.

 

La prima parte del film ha toni anche esilaranti. La seconda invece è completamente diversa. A chiunque voglia accusare di anti-americanismo lo stesso Moore, il regista mostra la vita dei soldati, ragazzi come noi che di quello che fanno ne sanno veramente poco ma che inorridiscono come noi di fronte alla guerra e alla morte; ragazzi che per la stragrande maggioranza entrano nell’esercito perché non hanno altra prospettiva per uscire dai ghetti neri o comunque dalla povertà, magari per mettere su qualche soldo per andare all’Università. E questa parte del film raggiunge toni veramente drammatici, da lasciarci qualche lacrimuccia.

 

Infine vi segnalo di guardare molto attentamente la sequenza dedicata al disastro dell’11 settembre: le Torri non ci vengono mostrate, schermo buio e solo sonoro, e poi le immagini dei testimoni e dei superstiti, ma non si vedono mai le Torri e tanto meno Ground Zero: e ne esce una sequenza in cui la forza emotiva di quell’evento esce fuori ancora più che nelle usurate immagini tv che abbiamo visto e rivisto centinaia di volte. Anche qui sta la bravura di Micheal Moore.

 

Fahrenheit (per chi non lo sapesse il titolo è preso da Fahrenheit 451, il libro di Ray Bradbury poi diventato film con Truffaut, che narra di come il potere cerchi di manipolare il popolo alterando la verità storica) è un film che lascia un dubbio. A parte la gran capacità di Micheal Moore e la scarsa attitudine del cinema italiano al documentario, un film così in Italia sarebbe stato possibile? Sarebbe stato possibile in Italia accedere a documenti riservati, utilizzare immagini che ritraggono il presidente, ottenere le liberatorie dai parlamentari intervistati, ecc. ecc., e soprattutto non ci sarebbe stata subito qualche body-guard pronta a rompere la telecamera?

 

venerdì 25 marzo 2005

dialogo sulla costituzione

Su un lontano pianeta, nell’angolo più remoto dell’universo, nella galassia più distante dal nostro pianeta alcuni mostri a quattro braccia molto saggi stavano discutendo di politica. Alcuni frammenti di questo dialogo sono arrivati fino a noi.

 

-         Dobbiamo cambiare la costituzione. Il capo vuole che sia fatto in fretta

-         Ma non lo abbiamo appena fatto?

-         Sì, ma sai che fra un anno ci sono ancora le elezioni, bisogna far vedere di aver fatto qualcosa di nuovo. Bisogna essere aggiornati, sempre alla moda, come il nostro premier. E anche la costituzione deve esserlo, sennò gli alleati degli altri pianeti che diranno?

-         Ok, ma che c’è rimasto da cambiare?

-         Vediamo… il Presidente del Pianeta non conta più niente, visto che gli abbiamo tolto pure il potere di sciogliere le camere. Finalmente potrà assolvere al suo compito primario: tagliare i nastri alle cerimonie ufficiali. Quanto ai poteri del premier, beh, abbiamo inventato una parola che non esiste, premierato, per dire che può fare quello che gli pare. E poi abbiamo fatto la devolution che volevano quelli della Lega del Pianeta Nord. Che poi non cambia un cazzo, ma con la storia del senato federale li abbiamo fatti contenti.

-         Il capo dice che è ancora troppo comunista ‘sta costituzione. Tipo quella cosa che il Pianeta è fondato sul lavoro. È roba troppo da comunisti.

-         Hai ragione, e poi lo sanno tutti che ormai non lavoro più nessuno. Tutti precari. Direi di fondarlo sulle olo-visioni, ′sto pianeta

-         No, lo sai che poi quei comunisti ritirano fuori la storia del conflitto di interessi. Senti e se non lo fondiamo proprio? Che ne dici? Così ce lo rigiriamo come ci pare.

-         Mi pare una bella idea. Poi c’è pure quella storia delle elezioni. Troppo comuniste, dice il capo. Ma che storia è che qualcun altro può governare al posto suo se qualche scemo si sbaglia a votare?

-         È vero togliamole. Tanto che cazzo lo vota a fare la gente il parlamento se ha sempre meno poteri? Certo che l’abbiamo pensata proprio bella: dare al primo ministro il potere di sciogliere le camere. Altro che sfiducia costruttiva. Sai dove se la devono mettere la sfiducia costruttiva quei comunisti?

-         Ah, ah, ah.

-         Senti lasciamo perdere va. Che tanto qualche stronzata qualcuno la tira fuori da qui fino alle prossime elezioni. Andiamo a bere qualcosa. Lo sai che da ubriachi prendiamo le decisioni migliori, no?

Quando voglio postare ma non so che scrivere

Lo sapevate che in Russia fanno la cioccolata? Me l’ha riportata ieri sera mia sorella oltre alle matrioske di rito, che non possono mai mancare se si va in Russia, no? Alla domanda com’era San Pietroburgo mia sorella ha risposto che c’era tanta neve, il Mar Baltico era ghiacciato e la Neva altrettanto, faceva freddo e che la città è bella e il museo dell’Hermitage ancora di più però non ci tornerebbe  (se non con una guida) perché per ovvi motivi non riesce nemmeno a capire il nome delle strade.

Torniamo alla cioccolata russa. È buona, non c’è che dire. Una tavoletta era alla vodka (a che sennò?), le altre non lo so come sono, lo scoprirò quando le assaggerò. Sapete le etichette scritte in russo non sono il mio forte.

 

Oltre alla cioccolata che novità posso raccontarvi? Intanto diciamo che le scadenze che tempo fa avevo fissato come mia data di scadenza (qualcuno ricorderà) si sono allungate, quindi ho ancora un po’ di tempo prima di andare a male… Ci sono pure buone probabilità che io non scada, perché, insomma, quella cosa che dovevo fare (chi mi rinfresca la memoria?) è a buon punto, è quasi ultimata, anche se come al solito tendo a perdere tempo, per esempio scrivendo quattro scemenze su questo blog quando potrei scrivere ben altro. Però confido di farcela, e come va, va. Anche perché non sono molto fiducioso: non mi sembra un buon lavoro, non so, mi lascia insoddisfatto. Però alcuni miei colleghi pare che la pensino come me per i loro rispettivi lavori. Alla fine tanto nessuno leggerà quella roba, ne sono sicuro: mi faccio solo un sacco di pippe mentali.

 

Altro? Mah, potrei dirvi che non sto al 100% in salute. Ho cominciato una settimana fa con un po’ di raffreddore, sapete, il cambio di stagione… Poi tosse, mal di gola e, visto che non mi faccio mancare niente e soffro un po’ di asma, faccio un po’ fatica a respirare e quindi sto facendo il solito aerosol. Insomma sono uno straccio, ve lo avevo detto che ero invecchiato!

 

In questi giorni poi sto maturando una sorta di dipendenza da svariate sostanze stupefacenti: il cioccolato di cui ho detto (anche senza le tavolette russe), il caffè, che bevo sempre di più anche quando non studio e quindi non me ne fregherebbe niente di stare vigile e attento, la liquirizia che alzare la pressione, e col caffè potrebbe essere un cocktail micidiale, e l’orzo, purtroppo in formato solubile in mancanza di quello della mia macchinetta preferita: l’unico motivo per il quale mi vedo con un mio amico (ancora sto cercando di capire quali proprietà abbia il caffè d’orzo, oltre ad essere un surrogato del caffè: però non ne riesco più a fare a meno).

Qualcuno sa dirmi come si fa a uscire da questo tunnel?

giovedì 24 marzo 2005

«I film sono più armoniosi della vita, non ci sono intoppi nei film, non ci sono rallentamenti. I film vanno avanti come i treni, capisci, come i treni nella notte»

 

François Truffaut – Effetto Notte



 


 

mercoledì 23 marzo 2005

Blow up, di Michelangelo Antonioni

Londra, fine anni ’60. Un fotografo di moda si muove nella città simbolo di un’epoca e del suo costume. E lo stesso fotografo vive a pieno la città, facendone parte ma ponendosi anche in parte con una prospettiva di spettatore, di osservatore. È l’obiettivo della sua macchina fotografica che fornisce la mediazione attraverso cui lui vive il suo lavoro e la sua città; il suo sguardo è sempre e comunque fotografico anche quando non ha il suo strumento con se: corpi, visi, paesaggi, strade, tutto è potenzialmente il risultato della mediazione fotografica.

Il suo lavoro ricopre completamente la sua vita, e come potrebbe non essere così, a fare uno dei lavori più affascinanti nella città più alla moda. Non a caso il protagonista di questo film di Antonioni è un fotografo: è il mestiere che più di ogni altro permette di inquadrare un’epoca, di descriverla con levità e leggerezza ma anche con una cupezza che ne veicola un vuoto quasi assoluto.




Ogni avvenimento è funzionale al suo contesto; ogni cosa che accade a Londra, e in questo caso al nostro fotografo, è eccessiva, è iperreale, è qualcosa che cela dietro di sé dei significati diversi e più complessi. Significati che forse si possono trovare per le strade della città o per i locali più alla moda o, ancora, in una festa a base di allucinogeni, ma che comunque sfuggono in assoluto, non si colgono.

Il nostro fotografo cattura le immagini del nostro tempo, dalle modelle che vengono nel suo studio alle immagini più casuali che trova in giro per la città. È la ricerca degli scatti migliori che lo fa muovere in giro per la città, fra i personaggi più strani, che non è detto siano i mimi che incontra all’inizio e alla fine del film. Forse piuttosto i grigi impiegati della City che girano anonimi per le strade; gli esponenti dell’alta borghesia londinese, le classi più agiate e alla moda, che sono però solo elementi di contorno, preferiscono chiudersi in sé e nelle loro droghe; o i giovani “capelloni” che però sono solo il risultato delle follie di massa, niente più che gente che segue la moda.

 

Il personaggio più inquietante e affascinante del film è la donna senza nome interpretata da Vanessa Redgrave. Il fotografo la incontra in un parco e la immortala in un incontro con un uomo molto più anziano di lui, senza sapere però di stare riprendendo anche molto di più. C’è un mistero dietro a quelle foto, e lei non le rivuole indietro solo per salvare le apparenze della sua vita privata. È evidente che ci sia molto di più.

 


 

Sarà l’analisi dettagliata delle foto, l’immersione totale nel suo ruolo di “fabbricante di immagini” a svelare qualcosa. Sarà l’immersione nelle foto, nella grana del bianco e nero, ingrandimento dopo ingrandimento, a dare un senso che vada oltre i baci fra quella donna e quell’uomo, e poi alla corsa di lei (si veda la citazione che ho postato qualche giorno fa qui)

Ma è solo un inizio, un frammento di realtà che emerge da sotto la superficie ma che ritornerà al di sotto del percebile. Il tentativo di vivere qualcosa di più che il resto della massa e della città, che quello che i ruoli sociali impongono, si risolve nell’impossibilità di penetrare realmente nel mistero ma forse quello che si troverà è uno sguardo più ricco e più critico alla nostra società, o almeno a quella fissata sulla pellicola da Antonioni, che viene messa in vetrina e sbeffeggiata.

 

Esemplare e indimenticabile, in ogni modo la si guardi e la si consideri, la sequenza finale della partita a tennis fra i mimi: una partita senza palle, senza racchette, senza rumori e senza spettatori, tranne il fotografo, e forse gli altri mimi che più che fare da cornice completano il quadro. Anche il pubblico è muto ed è un simulacro. Sequenza, questa, che si presta a diverse interpretazioni, io non ne azzardo.

martedì 22 marzo 2005

San Pietroburgo

San Pietroburgo è una città stupenda, la Venezia del Baltico (chissà perché un sacco di città sono la Venezia di qualcosa?).


E' famosa per il museo dell'Hermitage



in cui sono esposti capolavori inestimabili




C'è la Fortezza (cattedrale SS. Pietro e Paolo), dove sono le tombe dei Romanov



Eè piena di ponti e canali che scorrono intorno alla Neva, il fiume che attraversa la città




Questa è la cattedrale di San Isacco e ci sono altre chiese bellissime




Si verifica il fenomeno delle notti bianche, magari non come ad Oslo ma comunque suggestivo



MA SOPRATTUTTO SE VI SIETE VISTI TUTTE LE FOTO E SIETE ARRIVATI QUAGGIU'... QUESTA STUPENDA CITTA' SI TERRA' MIA SORELLA PER QUATTRO GIORNI! LIBERO FINALMENTE!

domenica 20 marzo 2005

Gli album di Marco Paolini

Ieri sera stavo vedendo qualche frammento della trasmissione di Fabio Fazio, Che tempo che fa, e ospite era l’attore Marco Paolini, che adoro. Era già qualche tempo che volevo scrivere qualcosa su Paolini e questa apparizione televisiva mi ha convinto a farlo. Sicuramente non renderò giustizia a questo personaggio non solo del teatro o, quando capita, della tv, ma della cultura italiana in genere.

Quei dieci minuti di conversazione con Fabio Fazio che ho visto hanno detto molto più che ore di interviste in tv a personaggi politici e esponenti dell’ “alta” cultura. Qualche chiacchiera, nello stile volutamente understatement del conduttore, sul lavoro di Paolini per parlare però del nostro paese e del nostro tempo. Una battuta su tutte, alla domanda del conduttore “c’è qualcosa che ti fa ridere?”: “Io di mio riderei ma è il mio paese che tende al tragico!”.

 


Ecco in questa frase Marco Paolini ha riassunto il suo lavoro e il suo, il nostro, paese.

Vi parlo di Paolini e del suo lavoro, perché sulla tv italiana non vanno solo in onda grandi fratelli, fattorie, mariedefilippe, milionari e qualche fiction su qualche santo. Ma c’è anche qualcosa di più, molto di più. Ed è il bello del mezzo, no? Dentro può andarci tutto, dobbiamo essere noi bravi a scegliere.

 


 

Per chi non lo conoscesse e non avesse capito di chi sto parlando, Marco Paolini è un bravissimo (e uso un  eufemismo) attore che fa teatro, e basta, come dice lui: perché dargli etichette? Però per parlarne qualche etichetta va data, e diciamo che il teatro di Marco Paolini è un teatro sociale e politico (politico nel senso etimologico di “polis”, sempre come dice l’attore stesso) che ha come scopo, se il teatro ha uno scopo, quello di raccontare qualche frammento della storia di questo paese. Paolini, se ancora non l’avete riconosciuto, è quello che qualche anno fa fece uno speciale seguitissimo (e replicato un annetto e mezzo fa) sulla tragedia del Vajont (realizzato nella valle stessa, sotto la diga del disastro). Poi è riapparso in tv (perché, ahimé, è la tv il veicolo più potente, ma lo spettacolo è stato portato in giro per l’Italia) con la vicenda di Ustica.

 


 

L’anno scorso introduceva le puntate di Report, il rotocalco di inchiesta di Rai Tre, con il racconto tipicamente “paoliniano” di eventi purtroppo il più delle volte tragici e “scandalosi”.

E ora, finalmente vengo al punto, va in onda su Rai Tre tutti i giovedì alle 23 e 30 o giù di lì con Gli album di Marco Paolini.

 

Il teatro di Paolini è un teatro spesso di denuncia, orientato sulla realtà, sull’attualità e sulla storia contemporanea. Marco Paolini racconta la storia del nostro paese (e non solo) prendendola spesso dal versante dei più poveri e dei più deboli; racconta gli umori e le sensazioni legate a certi avvenimenti; racconta le vicende di personaggi a volte reali, altre immaginari, ma che raccontano non solo l’Italia, ma anche noi stessi, sia chi certe cose le ha vissute sulla propria pelle sia chi non c’era ma che sente ancora oggi l’influenza di certi fatti e certi flussi, culturali, sociali e politici.

Gli album, in particolare, sono dedicati, ogni puntata, ad un momento storico particolare, attraverso le vicende di Nicola, personaggio fittizio ma in parte autobiografico, che vive la sua giovinezza nella provincia veneta. E fra le vicende di Nicola e la storia del nostro paese a partire dagli anni ‘70, Paolini incolla gli spettatori alle poltrone, per chi ha avuto la fortuna di assistere alla presa diretta degli spettacoli, e alle sedie, divani, letti, poltrone e quant’altro, gli spettatori tv. Perché Paolini racconta vicende serie in modo semiserio, fa immedesimare il pubblico in quello che accade, perché o le ha vissute certe cose o perché sono talmente importanti che non puoi non immedesimarti. E poi lo stile del racconto di Paolini è tale da fare immergere lo spettatore nel clima di un’epoca, facendo sentire odori e rumori di tutto quello che accade intorno a Nicola (nello specifico degli Album ma più in generale in ogni cosa che racconta Paolini), nonostante l’unica cosa presente in scena sia sempre e comunque Marco Paolini, perché è la bellezza dei testi e la capacità affabulatoria dell’attore, nel raccontare e nel dialogare (e anche giocare) con il proprio pubblico, a fare tutto, e a far riuscire questa magia.

Nella migliore tradizione del nostro teatro, Paolini mischia tragedia e umorismo, perché sono due facce della stessa medaglia, come insegnava Pirandello, e perché la sua indole e il suo temperamento sono tali che lacrime e risate possono alternarsi benissimo, e in questo gioco di ruoli riuscire a far riflettere e indignare lo spettatore per tutto quello che non va, non andava o non andrà in questo paese, e fargli provare comunque nostalgia per qualcosa che “era” e ora non è più.

 

 

venerdì 18 marzo 2005

Codice da Vinci scomunicato...

In questi giorni ho appreso la notizia che il Codice da Vinci, di Dan Brown, è stato accusato dalla Chiesa Cattolica di non essere conforme alla dottrina, e siccome è considerato un libro scomodo, la Chiesa ne sconsiglia la lettura al buon cattolico. Non ho letto il libro, ma la sostanza non cambia. Non mi sono informato abbastanza da capire se chi legge il Codice verrà scomunicato, però... Ma non eravamo nel 2005?


Per approfondimenti vi rimando a http://lavitaenientaltro.splinder.com, dove c'è un bel post sull'argomento


NATURALMENTE DOVETE LEGGERE E COMMENTARE PRIMA IL POST SOTTO, EH?

Stamattina mi sono alzato e...

Stamattina mi sono svegliato dopo un sonno bruttissimo. Stanotte mi sono svegliato un sacco di volte, dopo che ci avevo messo tantissimo ad addormentarmi.


Mi specchio e vedo una ruga che ieri non c’era. Mi tasto la pancia e vedo che forse è cresciuta troppo, ma ormai che ci posso fare? Forse ho perso anche un mezzo grado ancora di vista. Ho scoperto che parlo sempre delle stesse cose e che ripeto all’infinito le stesse storie vecchie di anni. La cosa bella è che non sono da solo a raccontare queste vecchie storie, forse mi danno retta come ai matti o… come ai vecchi!



 



Cazzo, alle 00.30 di oggi ho fatto 26 anni! Stiamo ad un quarto di secolo+1 e sento il peso degli anni. Fra poco metterò la dentiera, metterò un pannolone per l’incontinenza, e andrò a ritirare la pensione ogni primo del mese. Ah, no, la pensione con l’aria tira non mi tocca.


26 anni e ancora non mi sono laureato, non ho un lavoro e credo che vivrò a casa dei miei almeno… ancora per un bel po’ di anni. Se guardo questo lato della mia vita, beh, non posso dire che il bilancio sia positivo, anzi è in perdita.


Ma se guardo altre cose mi sento più giovane, le rughe spariscono, la pancia non è un problema, potrei sempre buttarla giù e per il pannolone ancora ho un po’ di tempo.


Guardo ancora in cartoni animati, e non solo i Simpson, quello è facile li guardano tutti e non sono cartoni per bambini (sfido un bimbo a cogliere tutte le sfumature di quelle opere d’arte moderna che sono i gialli, tutte le citazioni cinematografiche, la satira politica e sociale…).


Vedete, c’è un’altra cosa che mi fa sentire giovane parto a parlare e sviscero un tema in ogni aspetto: è un sintomo di attività intellettuale ancora buona, no?


Poi compro ancora Zio Paperone tutti i 15 del mese (a proposito ‘sto mese ancora non l’ho preso), e sono uno dei più grandi collezionisti in circolazione (tranne che per i famosi 14 primi numeri che bisognerebbe andare a “comprare” a mano armata per quanto te li fanno pagare se li trovi). Considero ancora Lo chiamavano Trinità uno dei miei film preferiti, e non mi perdo mai, o quasi, un film con Bud Spencer e Terence Hill in tv, come quando ero piccolo. Una piccola concessione alla nostalgia per quando ero bambino. A proposito di Bud, mi sa che devo rivedere la mia “ammirazione”: si è candidato per Forza Italia nel Lazio, alle prossime regionali. A quando Terence Hill candidato con L’Ulivo?


Poi mi metto ancora a guardare le partite in tv con mio padre come quando ero piccolo e mi aveva attaccato ‘sta brutta malattia (ora sono io che lo piazzo sulla poltrona a vedere il ciclismo, anche se piace pure a lui, ma non come a me). Ho smesso di giocare con i Masters o roba del genere, ma non da troppo tempo, non credete.



 



E poi se penso che a 26 anni ho letto molti più libri di quasi tutti quelli che conosco. Ho visto un sacco di film che non possono mancare dal bagaglio culturale di una persona. So fare un discorso lungo e ingarbugliato quasi su ogni argomento, tranne, che so, la fisica quantistica che non è proprio il mio pane; e in questi discorsi lunghi e ingarbugliati sono capace di ficcarci dentro qualche considerazione “dickiana”, e molti possono testimoniarlo, anche fra chi legge questo blog. Poi molte persone mi chiedono sempre consigli per acquistare libri, ed è un attestato di stima, no? Sto scrivendo una tesi di laurea con molto coraggio, perché pochi si sarebbero avventurati in una tesi come la mia, dove devo inventarmi qualcosa di nuovo e ancora non ci sono riuscito anche ora che l’ho quasi finita. Ma confido che venga apprezzato il coraggio. Ho un blog che non sarà il più letto della blogosfera ma comunque ho un discreto numero di lettori,e amici, fissi, e lo considero un bello spazio di riflessione, almeno per me, che è quello che conta di più. Ho pochi amici veri ma buoni e mi basta.



 



Insomma il bilancio non è proprio male. Questo anno mi sento di essere ottimista per il mio compleanno, e chi mi conosce sa che è strano per me, che solitamente non amo molto il giorno in cui si sancisce di essere diventati un anno più vecchi. Ho deciso che da questo compleanno voglio trovare qualche energia nuova. Infatti contrariamente a quanto faccio di solito ieri sera sono andato a cena fuori con pochissimi intimi ed è stata una serata piacevole, in cui abbiamo chiacchierato, scherzato e raccontato vecchie storie di anni fa, sempre le stesse, ripetute centinaia di volte ma che non stancano mai, come i vecchi appunto. Ed è stato anche un modo per salutare un amico che parte e si trasferisce nel freddo nord, in piena Padania, che, siamo tutti sicuri, tornerà giù a Roma ogni tanto e parlerà qualche barbaro dialetto locale (varesino? O si dice varesotto?) e voterà Lega Nord.



 



Insomma, ieri sera sono stato bene. Questo primo anno dopo il quarto di secolo è iniziato bene. E ci ho pure rimediato una cosa bella davvero…



 




 






 



Ora mi manca Kill Bill vol. 2 e la filmografia di Tarantino ce la ho quasi completa. A meno che non considerate pure film in cui QT ha scritto soggetto e/o sceneggiatura (Natural Born Killers e Dal tramonto all’alba) oppure in cui ha girato un episodio (Four Rooms). Consiglio prima di Jackie Brown guardatevi Rapina a mano armata di Kubrick, che viene citato abbastanza esplicitamente, nella forma, nel film di Tarantino.

giovedì 17 marzo 2005

Fare avverare la realtà

«Una fotografia è un universo di puntini. La grana, il composto alogeno, i piccoli grumi argentei dell’emulsione. Una volta entrati nel puntino, si accede all’informazione nascosta, si scivola all’interno dell’evento minimo.

Questo riesce a fare la tecnologia. Sbuccia le ombre e redime la confusione e l’incoerenza del passato. Fa avverare la realtà»

 

Don DeLillo – Underworld

 

Come sempre quando trovo un libro che mi piace e che mi fa riflettere vi lascio qualche traccia e qualche brano che spero sia fonte di riflessione. Don DeLillo ha la grande facoltà di spiegare il nostro tempo.

mercoledì 16 marzo 2005

Politica (???) in Tv

Ieri sera Berlusconi a Porta a Porta ha fatto la periodica chiacchierata con Bruno Vespa nel suo tipico stile del monologo, senza il minimo contraddittorio. Ma a questo ormai siamo abituati, e ammetto di non prendermi neanche la briga di ascoltare cosa ha da dire.

Però fra ieri e stamattina qualche cosa ho sentito. Due cose hanno riportato i giornali. Intanto il Presidente del Consiglio nella sua veste di Burlesconi ha detto che ha rispettato in pieno il famoso contratto con gli italiani, e che quindi è costretto a ricandidarsi per battere quel comunistaccio di Prodi (mi chiedo chi cazzo lo ha firmato quel contratto: ma non le avete viste le clausole in piccolo?).

A parte questa battuta che ci aiuta a vivere meglio (perché una ricerca americana ha dimostrato che la risata aiuta l’apparato cardiocircolatorio: forse è per questo che c’è chi lo vota, per farsi buon sangue), Berlusconi ha detto una cosa invece molto più seria, e cioè che da settembre può darsi che il contingente italiano in Iraq possa iniziare ad essere snellito. Ora mi chiedo: in base a quali dati politici e militari Burlesconi fa queste affermazioni? Perché non informarne prima il Parlamento (organo sovrano dello Stato)? Forse perché l’uditorio a cui Silvio si rivolge non è quello che dovrebbe ma quello degli elettori. Pardon, dei telespettatori.

 

Solo che è sempre più difficile distinguere la fiction dalla realtà in tv. Vespa il prossimo anno condurrà Il Grande Fratello.

martedì 15 marzo 2005

Più reale del reale

«È un filmato implacabile che sembra protrarsi all’infinito. Ha una determinazione senza scopo, una pervicacia che trascende il tema preso in esame. È un’esplorazione della mente del video familiare. È innocente, è senza scopo, è determinato, è reale. […]

C’è qualcosa nella natura del nastro, nella grana dell’immagine, nei toni barbuglianti del bianco-e-nero, nella sua essenziale crudezza, che ti fa pensare che sia più reale, più aderente alla vita di tutto ciò che ci circonda. Le cose che ti circondano sono meno immediate, sembrano provate e ritoccate davanti allo specchio, abbellite dai cosmetici. Il nastro è iperreale, o forse sarebbe più appropriato dire subreale. È ciò che rimane sul fondo scrostato di tutti gli strati che hai aggiunto. E questo è un altro dei motivi per cui continui a guardare. Il nastro è di un realismo folgorante. […]

E continui a guardare. Guardi perché questa è la natura del filmato, creare un percorso obbligato nel tempo, dare forma e un destino alle cose. […]

Ci piombò dentro a capofitto. La bambina si smarrì e piombò a occhi aperti nell’orrore. Questo è un racconto per bambini, un monito su quello che succede ad allontanarsi troppo da casa. Ma non è l’automobile di famiglia a servire da strumento alla curiosità della bambina, alla sua tendenza ad esplorare. È la videocamera a collocarla nel racconto. […]

Mostra qualcosa di orribile e privo di effetti speciali. Vuoi che tua moglie lo veda perché questa volta è violenza reale, non invenzione cinematografica – la realtà sotto gli strati di percezione cosmetica. Fai presto, Janet, sta per succedere. L’uomo muore così in fretta. Non c’è nessun tipo di effetto speciale, nessun accompagnamento. È molto essenziale. Vorresti dirle che è più reale della realtà ma poi lei potrebbe chiederti cosa intendi dire»

 

Don DeLillo – Underworld

lunedì 14 marzo 2005

Spento e scollegato. Così mi sento stasera. Voglio uscire e prendere il volo. Voglio lanciarmi dalla finestra e volare. Voglio aprire un ombrello e decollare. Voglio sentire una voce che mi dica da che parte uscire: seguite il sentire di mattoni gialli e troverete la strada di casa. Voglio andare da qualche parte ma se non so neanche da dove cominciare?

Vite virtuali

 

Se abitate in Asia ed avete un telefonino di terza generazione (i videofonini per capirci) ora c’è la ragazza che fa per voi. Si chiama Vivienne Rose, è nata il primo dicembre 1983, fa la designer e ha un diploma in design, per l’appunto, parla come prima lingua l’inglese ma sta imparando anche il cinese, il giapponese ed il coreano. E soprattutto non ha mai avuto storie serie, è in cerca del grande amore, fatevi avanti!

Vivienne è la vostra ragazza virtuale (se abitate in Asia, ma mi sembra di aver capito che potrebbero lanciare questa cosa un po’ in tutto il mondo) che vi vorrà bene ma che dovrete accudire: guai a dimenticarvi del suo compleanno o a non farle dei regali, si incazzerà come un bufalo. Con Vivienne potrete chattare in tempo reale o scriverle degli sms a cui lei risponderà subito; vi invierà mms con le sue foto e vi chiederà di starle vicino quando è giù, e dovrete essere bravi a consolarla (non si sa mai che vi lasci…).

 

Vivienne è un giocattolino interessante che si trova in rete, e si vorrete fare una passeggiata sul suo sito vedrete che è pure una bella ragazza (il sito è tutto in Flash e non so esportare le immagini da flash, posto che si possa fare, sennò vi facevo vedere una foto). Ad un modico prezzo Vivienne vi riempirà di attenzioni ma ve ne chiederà anche: potrebbe essere più rompipalle di una ragazza vera con la quale almeno dopo averle fatto regali, averle comprato le rose e averla portata a cena fuori poi magari… Con Vivienne invece niente sesso, lei è casta e pura.

 

V-girl è fondamentalmente un gioco, un tamagotchi più evoluto però è anche una cosa seria. È il risultato di studi sull’intelligenza artificiale ed è prodotto dalla società Artificial Life. Non so di preciso come funziona ma dovrebbe essere un agente software pronto a rispondere ai vostri desideri: voi mandate un messaggio e il programma risponde cercando fra tutte le soluzioni a disposizione quella migliore per voi, prendendo come problema di partenza il vostro messaggio. Un somma una macchina che gioca ad essere intelligente (perché la vera intelligenza artificiale, ancora la devono inventare).

 

Però resta il fatto che l’idea di base è affascinante: mi chiedo che tipo di interazioni potrebbero nascere e quindi quali identità uno potrebbe costruirsi. Che impatto potrebbe avere una cosa del genere? Penso ad evoluzioni più avanzate, ad una commistione fra vite artificiali e vite reali, a come l’essere artificiale possa influenzare la vita reale di qualcuno e di come la vita reale possa entrare nell’artificiale e nel virtuale: con l’evoluzione tecnologica che corre sarebbe pensabile alla nascita di vere e proprie comunità virtuali che vedano l’interazione di creature artificiali con persone vere. E con in mezzo la mediazione di un computer chi potrebbe dirci se abbiamo a che fare con persone vere o entità solo virtuali? Magari con un blogger virtuale...

Siete pronti a vivere nel cyberspace?

 

 

 

sabato 12 marzo 2005

Sono proprio scemo...

Salve a tutti, qualcuno forse avrà notato che ho preso a postare anzi a ri-postare alcune cose che avevo scritto prima che cancellassi il blog quasi un mese fa. Più che altro ci sono alcune cose che mi spiacerebbe andassero perdute, così le pubblico di nuovo e le lascio ai posteri che potranno leggerle. Molti di voi avranno già letto questi post, altri magari sono arrivati dopo e alcuni se li sono persi, ma è soprattutto una cosa mia. Avrei anche potuto fare un sitino semplice semplice solo per pubblicare queste cose ma visto che sono nate all'interno di questo blog è giusto che ci restino, anche perché così ridò un senso "di immaginario" a questo blog che nelle ultime settimane lo aveva già perso.


Non ci fate caso, sono fatto così!


ps: ovviamente se qualcuno vuole andare a leggere qualche vecchio post che potrebbe aver perso mica mi spiace, anzi!

Simulacri, immaginario, fantascienza

(post scritto il 26 gennio 2005)


[Nota: questo post è molto lungo e di alto contenuto intellettuale… Vabbè, insomma qualcuno potrebbe annoiarsi: a voi la scelta se proseguire la lettura… Poi non dite che non vi avevo avvertito]


«La realtà poteva sorpassare la finzione: era il segno più sicuro del possibile gioco al rialzo dell’immaginario. Ma il reale non può sorpassare il modello di cui non è che l’alibi.

L’immaginario era l’alibi del reale, in un mondo dominato dal principio di realtà. Oggi è il reale che è diventato l’alibi del modello, in un universo retto dal principio di simulazione. Ed è paradossalmente il reale che è diventato la nostra vera utopia – ma è un’utopia che non appartiene più all’ordine del possibile, perché non si può che sognarne come un oggetto perduto».


Questo brano è tratto dall’articolo di Jean Baudrillard Simulacri e fantascienza, che trovate come postfazione del libro di Philip K. Dick I simulacri, appunto (che ho recensito qui). Baudrillard è uno dei filosofi contemporanei più famosi ed importanti, noto soprattutto per la sua cosiddetta teoria dei simulacri, cui fa parte del bagaglio culturale che sta dietro al primo Matrix. Riassumo qui il contenuto di questo breve saggio del filosofo francese.


Per Braudillard esistono tre ordini di simulacri: i simulacri dell’immagine, fondati sull’immagine, sulla contraffazione e l’imitazione, armoniosi e ottimisti, che mirano all’istituzione di un mondo ideale a immagine di Dio; poi ci sono i simulacri produttivi, fondati sull’energia, sulla forza produttiva: sono i simulacri delle macchine, che esprimono la tendenza prometeica all’espansione, alla crescita, che rappresentano il desiderio di qualcos’altro; infine ci sono i simulacri di simulazione, fondati sull’informazione, il modello, il gioco cibernetico.

Il primo ordine di simulacri corrisponde all’immaginario dell’utopia; il secondo alla fantascienza propriamente detta; il terzo… Baudrillard dice che non si sa a che immaginario corrisponda, a qualcosa che sta nascendo (ma c’è da dire subito che ormai questo nuovo immaginario fatto di informazione è nato, considerando che è passato qualche anno da quando il filosofo ha scritto queste pagine).

Per Baudrillard si produce immaginario laddove c’è distanza dalla realtà: «Non si dà reale che a una certa distanza, non si dà immaginario che a un certa distanza». Il fatto è che nel mondo contemporaneo questa distanza fra reale e immaginario si è assottigliata sempre di più, a tutto vantaggio del modello (il terzo ordine di simulacri). Lo scarto fra realtà e immaginario è massimo nell’utopia, dove si immagina un universo trascendente di ordine completamente diverso da quello esistente; si riduce lo scarto nel secondo immaginario, che è una proiezione del mondo reale, ma basato, appunto, sulla realtà scientifica, creando un universo aperto che prende le mosse da elementi reali; arrivati al terzo ordine di simulacri, quelli dell’informatica e dei mondi virtuali, abbiamo invece una iperrealtà, perché il modello non è più utopia o proiezione: non è più immaginario del mondo reale ma supera il mondo vero e proprio. Il modello supera il reale, perché non c’è più spazio per alcuna anticipazione finzionale: la fantascienza non è più fantascienza ma parla della realtà, è la realtà. L’unica simulazione possibile, dice Baudrillard, è in campo cibernetico, cioè il campo della manipolazione assoluta; arrivati qui, però, nessun modello si distingue dal reale e diventa reale esso stesso.

Il sistema del rapporto fra reale e immaginario ha raggiunto i suoi limiti, e si produce così una reversione di immaginario: senza più nuovi territori da esplorare l’immaginario diventa la realtà, arriva a descrivere la realtà stessa, in un modo che magari non ce la fa riconoscere, ma non è più di fiction che parliamo.

A esempio di questo Baudrillard prende due libri, I simulacri (e in generale tutta l’opera di PKD) e Crash di James G. Ballard (che ho recensito qui). Secondo Baudrillard le opere di Dick gravitano nel nuovo spazio in cui immaginario e reale sono la stessa cosa (ed è ovvio se pensiamo come tutta l’opera di Dick sia centrata sull’impossibilità di distinguere la realtà dalla finzione), «non si tratta di un universo parallelo, di un universo doppio, e neppure di un universo possibile – né possibile, né impossibile, né reale, né irreale: iperreale – è un universo di simulazione, che è un’altra cosa».

Per quello che riguarda Crash, il discorso di Baudrillard è che quel mondo fatto di automobili e di incidenti d’auto, di atti sessuali senza desiderio, è il nostro mondo e non vi è niente di inventato, è solo che è iperreale anch’esso è un «universo senza coscienza, ma anche senza inconscio». Il filosofo si chiede se questo mondo violentemente sessuato sia buono o cattivo, e la risposta semplicemente è che non lo sapremo mai perché «è questo il miracolo di Crash: da nessuna parte affiora quel senso critico, quello sguardo, quella profondità immaginaria che fanno ancora parte della funzionalità del vecchio mondo. Pochi libri, pochi film raggiungono questa risoluzione di ogni finalismo, di ogni negatività, questo splendore opaco della banalità o della violenza».


A questo punto per il filosofo la fantascienza è dappertutto nel nostro mondo, è il nostro mondo stesso ad essere diventato il modello di simulazione, una simulazione, non perché sia vero o falso, ma perché è divenuto iperreale, più vero del vero. E delle tre dimensioni con cui è iniziato questo discorso solo la terza è quella che interessa a noi, conclude Baudrillard.


Tutta questa argomentazione di uno dei più grandi pensatori degli ultimi decenni è importante, dal mio punto di vista, quello che cerco di portare avanti dall’avvio di questo blog, anche se ultimamente un po’ di meno. E cioè che il nostro immaginario è formato da alcuni elementi che ormai sono dentro la nostra vita, e per questo motivo l’immaginario è tanto importante, perché è la nostra vita, che assume forme via via diverse.

L’unico appunto che faccio a Baudrillard riguarda il fatto che in coincidenza del terzo ordine di simulacri, quello della simulazione nell’informazione e nella cibernetica, non ci sarebbe più un immaginario fantascientifico. Secondo me invece si tratta solo di un immaginario di natura diversa: è la natura stessa dell’immaginario dell’informazione a far sì che la nostra vita reale diventi intessuta di immaginario. E qui sta la forza del genere cyberpunk, di cui ho già avuto modo di parlare abbondantemente (cb1 e cb2)

In questo piccolo mondo

 

In questo piccolo mondo rientra in quella che è la produzione mainstream di Dick, in cui lo scrittore californiano riversava le sue ambizioni letterarie, frustrate da un’epoca che ancora discriminava la letteratura cosiddetta di genere.

Uscendo dalla fantascienza Dick non perde comunque la voglia di osservare e analizzare a fondo la società americana, e anche se il libro è stato iniziato nel 1957 e pubblicato poi postumo negli anni ’80, questo quadro rimane affascinante.

La vicenda delle due coppie che incontrano e si mescolano (Roger e Virginia: lui eterno sognatore alla ricerca continua di una nuova frontiera, in perenne viaggio, anche nei sentimenti, lei donna tutta di un pezzo, forte e che sa sempre quello che vuole dalla vita; Chic e Liz: lui uomo d’affari puritano, il tipico americano medio attento più agli affari e alla manutenzione del giardino, lei esuberante e un po’ svampita che si fa trascinare più dall’istinto e dai sentimenti che dalla ragione) segue lo schema delle affinità elettive goethiane. Per cui dopo anni di matrimonio più o meno felice incontrandosi Roger e Liz scoprono di essere affini perché l’altro è proprio il contrario del coniuge. E si scatena una passione del tutto irrazionale, perché Roger è come un bambino a livello sentimentale e perché Liz ha un ideale di passione e di amore del tutto mutuato dai modelli della tv. Mentre Virginia e Chic si incontrano sul piano degli affari, e nient’altro perché la loro vita non ha bisogno di amore, perché ad un certo punto conta la posizione sociale.

 

Il ritratto della società americana degli anni ’50 che ci da Dick è ancora osservabile oggi, perché le persone sono sempre le stesse, i sentimenti sempre quelli, le regole e convenzioni sociali opprimenti ci sono ancora. Dick nei suoi libri ha sempre descritto una realtà illusoria, che si mostra agli occhi dei protagonisti solo in presenza della morte, dell’assunzione di droghe chimiche (di cui Dick è stato grande consumatore: per sfuggire alla realtà opprimente dell’America, più che per avere rivelazioni divine) o per altri strani motivi.

La realtà che i protagonisti di questo libro vivono è quella che tutti viviamo nel nostro piccolo mondo. Niente di strano, nessuna allucinazione, tutto normale. E Dick ce lo racconta con uno stile descrittivo quasi neorealista, oppure minimalista alla Carver; ma dietro questa normalità sta una percezione della vita reale che è opprimente, non lascia vie di scampo con i suoi giardini ben curati, le aziende floride in pieno cambiamento, i cani a cui fare il bagno, i bambini da portare a scuola. In questo panorama il sesso diventa per Roger e Liz la via di uscita dalla normalità, dalla realtà, realtà in cui invece Virginia e Chic sono pienamente immersi e integrati.

Ma l’uscita dalla realtà non può che essere parziale, non può esserci che una breve esposizione ad una realtà diversa: poi si resta nuovamente imbrigliati dagli eventi, eventi che non si controllano ma che sono invece nelle mani di questa la realtà non solo la accetta ma ha contribuito a costruirla.

 

Insomma pur in un romanzo molto poco dickiano, PKD non perde l’occasione per mostrare la sua visione radicale dell’America: un’America puritana, opprimente, che costruisce gabbie sociali, che dietro l’apparenza cela una sostanza che è molto meno bella, che presenta tanti lati oscuri (Un oscuro scrutare è uno dei romanzi più noti di Dick, a metà fra il mainstream e la SF, da molti considerato il suo libro più cupo).

 

Questo Dick “arrabbiato” si vede nel passo seguente, che vi lascio sperando che dopo questo post vi venga voglia di leggere se non questo libro almeno qualcosa di PKD.

 

«Si immaginò circondato da truffatori e imbroglioni di ogni sorta; sollevò lo sguardo sugli uffici e sulle attività illecite che vi si svolgevano, gli ingranaggi, i meccanismi. Strozzini, banche, dottori, dentisti, guaritori… ristoranti che servivano pasti stantii, immobili sommersi, azioni fasulle di compagnie minearie inesistenti, riviste piene di foto oscene, animali massacrati a sangue freddo, latte contaminato da mosche morte, insetti, parassiti e secrezioni, immondizie e spazzatura, una pioggia di sporcizia sulle strade, sugli edifici, sulle case, sui negozi… vide il cielo lampeggiare e grondare; brandelli di soldato sparati in paradiso, parole che gli gracchiavano nelle orecchie, raccontandogli il ciclo mestruale di sua madre; vide il mondo intero fremere e riempirsi di peli, un mostruoso globo irsuto che esplodeva lordandolo di sangue…».

I simulacri

Un governo autoritario, che usa i mezzi di comunicazione di massa per perpetrare un inganno ai danni della popolazione; mostri e mutanti, naturali e artificiali, dotati di poteri psicocinetici; poliziotti che tentano golpe; l’ultimo psicanalista autorizzato a esercitare; grandi artisti “psi” ma un po’ (tanto) matti; gente comune che si dedica all’arte, ma ormai l’arte è qualcosa che non esiste più, il bello è veramente difficile da trovare; androidi che sono tali e quali agli essere umani, così perfetti da riuscire a perpetrare il più grande inganno della storia; viaggi nel tempo, usati a fini politici per alterare la storia, che porteranno nel futuro perfino Goering, nel tentativo di far vincere la Seconda Guerra Mondiale alla Germania.

E infine una massa di persone comuni, che sono i balia di questo mondo fatto di simulacri, sotto tanti punti di vista.

 

I simulacri è considerato uno dei romanzi più importanti di Philip K. Dick, uno di quelli scritti negli anni ’60 e che coincidono con la sua fase creativa più matura e più ricca di suggestioni narrative e di scenari che per certi versi oggi ancora potremmo toccare.

Gli Stati Uniti de I simulacri sono un paese in cui il governo è retto formalmente da un Der Alte, ma il Der Alte è un simulacro, un androide; la figura pubblica e quella che detiene davvero il potere è sua moglie Nicole, in carne e ossa, ma per certi versi un simulacro anche lei. Un simulacro perché Nicole non è quello che la maggioranza della popolazione crede (i Be, quelli a cui è nascosta la verità, che si contrappongono ai Ge, quelli che invece conoscono i segreti: Ge e Be sono abbreviazioni delle parole tedesche che significano grosso modo “quelli che sanno” e “quelli che non sanno”, e io non conosco il tedesco); ma un simulacro anche perché incarna i sogni della popolazione, le sue aspirazioni, governa ma è soprattutto la figura che attraverso la tv compare nelle vite dei Be occupandole con ogni sorta di cosa inutile e insignificante (il gossip, insomma) nascondendogli i veri segreti. Un governo, quello degli Stati Uniti raccontati da Dick, che manipola coscientemente l’informazione e la verità storica per detenere il potere in una sorta di oligarchia dittatoriale.

 

Ma i simulacri sono anche altri: c’è il simulacro dell’arte, che non è più tale; c’è il simulacro delle vite normali, che scorrono vuote; c’è il simulacro dell’unica via d’uscita possibile che è l’emigrazione nelle colonie marziane (tema ricorrente in Dick); ma è un simulacro al vita stessa a questo punto: simulacri sono gli androidi di cui si è detto (che non sono però autocoscienti come quelli di Ma gli androidi sognano pecore elettriche?/Blade Runner), ma simulacrali sono le stesse vite di chi fa scorrere la propria esistenza senza conoscere niente di quello che è il mondo reale, e soprattutto non importandogliene, anche quando è messo a parte di qualche segreto. Forse i simulacri veri siamo noi stessi, che cerchiamo di dare significato al mondo e alle nostre vite, cercandolo altrove?

 

Fantasmi semiotici

«”Se vuoi una spiegazione più colta, diciamo che hai visto un fantasma semiotico. Tutte queste storie di visitatori e di UFO, per fare un esempio, sono collegate ad un certo tipo di visioni fantascientifiche che ormai sono diffusissime nella nostra cultura. Un alieno può andarmi bene, ma non un alieno che somiglia ad un fumetto degli anni 50. Sono frammenti semiotici, fantasmi di questo immaginario collettivo che si sono seccati e hanno preso vita autonoma, come le aeronavi alla Jules Verne che quei vecchi contadini del Kansas continuavano a vedere. Tu hai visto un tipo di fantasma diverso, tutto qui. Quel buffo aeroplano, una volta, faceva parte dell’inconscio collettivo. Tu sei andato a ripescarlo, non so dirti come, ma l’hai fatto. L’importante è che non te ne preoccupi troppo.”

E io invece me ne preoccupavo proprio.

 

……

 

Ma cosa dovevo fare?

Guarda molta televisione, soprattutto giochi a premi e telenovelas. Vai a vedere dei film porno. Hai mai visto Nazi Love Motel? Qui lo danno via cavo. È veramente disgustoso. È proprio quello che ti serve”.

Di che cosa stava parlando?

“Smettila di strillare e stammi a sentire. Adesso ti rivelo un trucco del mestiere: sono le peggiori stronzate dei media che possono esorcizzare i tuoi spettri semiotici. Se è servito a me per tenere lontani gli alieni e i dischi volanti dovrebbe funzionare anche con i tuoi incubi futuristici Art Déco. Provaci. Che cos’hai da perdere?”».

 

William Gibson – Il continuum di Gernsback (dalle raccolte “La notte che bruciammo Chrome” di William Gibson, e “Mirrorshades”, a cura di Bruce Sterling)

Cyberpunk 2

(post scritto il 14 ottobre 2004)

 

[questo post è la seconda parte di quello pubblicato qualche giorno fa sul cyberpunk come movimento letterario. Poiché è molto lungo, e non mi andava di fare una terza puntata, l’ho diviso in due parti: leggetelo tutto, o solo la parte che vi interessa se vi va, però vi consiglio, per capire bene cosa sia il cyberpunk di andare a leggere la lunga citazione finale, in cui ho lasciato la risposta definitiva ad uno dei protagonisti]

 

I temi della letteratura cyberpunk

 

Il successo del cyberpunk nella sua fase di avanguardia ha fatto sì che ormai questo sia un genere affermato nella letteratura fantascientifica. Anche se gli autori identificabili col mirrorshades movement (William Gibson, Bruce Sterling, Lewis Shiner, Rudy Rucker, John Shirley ed altri) hanno, chi più chi meno, evoluto la loro produzione, il genere rimane importante e continua ad esercitare una grande influenza sulla fantascienza ma non solo, sulla letteratura, sul cinema e sulle più svariate forme di cultura mediatica, nonché, più in generale, sull’immaginario.

I temi trattati principalmente riguardano la descrizione di un mondo decadente nel prossimo futuro, dove si perde spesso ogni moralità, dove gli individui sono alienati dalla tecnologia e da una società in cui le disparità e i conflitti sono sempre più accesi. La tecnologia assume un ruolo simbolico importante in quanto sempre maggiore spazio è dedicato al mondo dell’immateriale costituito dall’informazione che viaggia in rete (la Matrice nei libri di Gibson e la Rete in quelli di Sterling). Elementi tipici, ma non essenziali (perché presenti soprattutto nei libri di Gibson) sono protesi fisiche artificiali e innesti per collegare il sistema nervoso alla Rete, elementi di Realtà Virtuale (o simili), la costruzione di identità sempre diverse.

Il mondo è dominato da governi corrotti e dalle grandi multinazionali, nonché dalle mafie, contro cui si ritrovano a combattere i protagonisti, hacker (i cow boy della console) ma non solo.

È difficile definire una volta per tutte di cosa parli il cyberpunk: questi elementi sono stati poi ripresi da chi ha attinto al genere per trarne regole e formule da usare in libri e film. Però non ci sono realmente regole: i temi trattati e il modo di trattarli variano e, come afferma Sterling, cyberpunk è ciò che scrivono i cyberpunk (quelli originali).

 

Genesi di un genere

 

Si è molto dibattuto su cosa sia il cyberpunk, soprattutto perché i suoi primi guru (quelli che ho citato sopra) hanno dichiarato chi, come Shiner, che il genere era morto e sepolto e chi, come Sterling, che il cyberpunk degli inizi non esiste più perché è cambiato il mondo e sono cambiati loro, che non fanno più parte della cultura underground (in quanto ricchi e famosi), e questa ammissione mi sembra la cosa più importante perché dà alle loro voci ancora più forza secondo me. Questa forza deriva poi dal fatto che con queste dichiarazioni (che sono assolutamente da condividere) segnano una rottura, agli inizi degli anni ’90, di fronte al proliferare di imitatori che dai grandi ideali contenuti nel manifesto del movimento (The New Science Fiction) hanno tratto delle formulette da ripetere e quindi libri che sono un sacco di spazzatura splatter.

Questi distingui servono per evidenziare le ragioni vere della nascita del cyberpunk, che non sono soltanto la necessità di rinnovare la fantascienza inventando qualcosa di nuovo. Il cyberpunk (come dice bene Sterling in un articolo del ’91 riportato in Italia nell’antologia Parco giochi con pena di morte) è nato nella cultura underground, è nato nella bohème, come tutte le avanguardie; una bohème moderna, ma sempre bohème. Il cyberpunk è da intendersi come il risultato di una sensibilità tutta moderna per il marcio del mondo contemporaneo; come dice Sterling, il cyberpunk non racconta di cose che non dovremmo sapere ma ha invece una cultura anti-umanistica e ci mette di fronte ad una concezione della vita in cui noi sappiamo già tutto, e i fragili esseri umani non possono farci niente semplicemente perché… le cose stanno così!

 

«La convinzione anti-umanistica del cyberpunk non è soltanto una acrobazia letteraria per scandalizzare la borghesia: è un dato obiettivo che riguarda la cultura degli anni del ventesimo secolo. Il cyberpunk non ha inventato questa situazione; ne è solamente un riflesso.

Oggi è abbastanza frequente vedere scienziati cattedratici disposti a sposare orribili idee radicali: nanotecnologia, intelligenza artificiale, sospensione crionica della morte, download dei contenuti cerebrali… La hybris si è scatenata negli atri universitari dove tutti, nessuno escluso sembrano avere un piano per rovesciare il mondo. La più severa indignazione morale si esprime con la voce più debole. […]

Viviamo già, ogni giorno, in mezzo ad azioni scandalose dalle conseguenze imprevedibili per il mondo intero. […]

Il pensiero dell’uomo, rivestendo le forme del tutto nuove della programmazione informatica, diviene qualcosa da cristallizzare, duplicare, trasformare in merce. Anche il contenuto dei nostri cervelli non è più sacro; al contrario, sta divenendo bersaglio di ricerche sempre più fruttuose, e al diavolo i dubbi di carattere ontologico e spirituale. L’idea che in queste circostanze la Natura Umana sia destinata in qualche modo a prevalere contro la Grande Macchina è semplicemente stupida; stranamente, non sembra affatto pertinente. È come se un filosofo cavia in una gabbia di laboratorio, poco prima che il suo cervello venga trapanato e innervato di fili nel nome della Grande Scienza, dovesse dichiarare con devozione che alla fine la Natura Roditrice trionferà comunque.

Tutto ciò che può essere fatto a un topo può essere fatto a un essere umano, e ai topi possiamo fare qualsiasi cosa. È difficile pensarci, ma è cosi, e non finirà soltanto perché decidiamo di coprirci gli occhi.

Questo è il cyberpunk.»

 

Bruce Sterling – Cyberpunk negli anni Novanta (in Parco giochi con pena di morte)

 

 

Ho lasciato a Sterling la risposta definitiva a cosa sia il cyberpunk, come mi sembra giusto, anche perché io non ne sarei stato capace. In base a questa definizione allora il cyberpunk è ancora vivo, anche se non più nella sua forma originaria, perché questa visione del mondo è rimasta.