Moebius

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sabato 8 dicembre 2012

Quello che vuole la tecnologia

More about Quello che vuole la tecnologiaPer rispondere alla domanda “Cosa vuole la tecnologia?” Kevin Kelly ricorre alla teoria dei sistemi adattivi complessi per mostrare quanto la tecnologia sia qualcosa di più che un mero insieme di aggeggi tecnologici. Ma già il fatto di porsi questa domanda significa prendere posizione perché si parte dall’assunto che la tecnologia, appunto, voglia qualcosa?

Innanzitutto, guardare alla tecnologia come a un sistema complesso significa stabilire i confini del fenomeno che stiamo indagando. Kelly definisce l’oggetto della sua indagine “technium”, che è dato non soltanto dagli artefatti tecnologici prodotti dall’uomo durante la sua evoluzione ma è piuttosto il risultato di quanto prodotto dalla civiltà umana dal momento in cui il primo ominide si è alzato in posizione eretta.

Da quel momento il technium ha iniziato a evolvere parallelamente all’aumento delle capacità cognitive dell’uomo. Per alcuni millenni l’evoluzione del technium è proceduta molto lentamente: le invenzioni/scoperte più significative che hanno accompagnato la crescita dell’umanità sono state, in ordine sparso, i primi manufatti di selce, il fuoco, la lavorazione del legno, l’agricoltura, la vita in comunità sedentarie, i primi villaggi. Ovviamente il linguaggio è ciò che ha rappresentato il salto in avanti più grande, così come millenni dopo la scrittura.

Questo approccio non risulta certo nuovo a chi abbia un po’ di dimestichezza con l’antropologia, con la sociologia e, per rimanere ai media e alla tecnologia, col pensiero mcluhaniano.
Ciò che ho trovato particolarmente interessante è il parallelismo che Kelly sviluppa fra evoluzione biologica e evoluzione tecnologica. Mettendo da parte l’idea tradizionale di evoluzione che, a partire dal Big Bang, è guidata soltanto dal caos Kelly fa invece riferimento a quella corrente di pensiero che vede una intenzionalità nel processo evolutivo. Questa intenzionalità significa, semplificando, che il più piccolo organismo unicellulare concepibile a un certo punto ha desiderato riprodursi; alla riproduzione segue una sempre maggiore complessità biologica (da una a due cellule, e così via), fino ad arrivare a noi.

Traslando questo discorso verso la tecnologia, il technium (di cui noi stessi facciamo parte se lo vediamo come un sistema complesso) è evoluto nel corso dei millenni con uno scopo preciso: espandersi, crescere, divenire sempre più complesso. Questa evoluzione all’inizio è stata lenta ma al crescere della complessità è diventata sempre più veloce fino ad arrivare agli ultimi secoli, durante i quali si è registrata un’impennata esponenziale della quantità di innovazioni introdotte nel technium.
Ogni tecnologia (in senso lato: il sistema giuridico è una tecnologia, il metodo scientifico è una tecnologia, e delle più importanti) ha consentito un avanzamento molto più veloce e ha posto le basi per far sì che altre tecnologie potessero svilupparsi perché un nuovo utensile, una nuova metodologia di lavorazione, un nuovo macchinario creano un contesto fertile per ulteriori innovazioni.

L’affermazione più forte di Kelly è che certe tecnologie volevano emergere e sarebbero emerse comunque in un dato momento storico proprio perché il risultato di determinato contesto culturale, sociale, produttivo. Alcune tecnologie erano inevitabili.
Molto interessanti sono gli esempi che l’autore porta per quanto riguarda invenzioni o scoperte che emerse contemporaneamente in luoghi diversi a opera di persone differenti che non lavoravano insieme (ad esempio il telefono o la lampadina) o di quelle che invece sono comparse, scomparse e ricomparse più volte finché non sono diventate sufficientemente mature per trovare la loro giusta collocazione (come esempio recente penso ai tablet che sono comparsi più volte negli ultimi 20-30 anni ma si sono radicati solo recentemente grazie alla maturità tecnologica che hanno raggiunto e, soprattutto, al ventaglio di usi che la Rete consente oggi e che ancora non permetteva soltanto 15 anni fa).

Il libro di Kelly è molto ricco di suggestioni, accompagnate da dati ed esempi, alcune magari non proprio condivisibili se non viste all’interno di questo panorama (come l’idea che la tecnologia così intesa sia dotata di libero arbitrio). Forse pecca un po’ di determinismo ma è sicuramente una lettura stimolante, soprattutto nelle prime parti perché poi negli ultimi capitoli si perde un po’. Kelly ha comunque il merito di non voler fare il profeta dell’evoluzione tecnologica a tutti i costi; egli stesso spiega che alcune tecnologie non le usa e che per certi aspetti preferisce uno stile di vita più semplice.
L’adozione o meno di una tecnologia è comunque sempre una scelta; in differenti gruppi sociali, per ragioni storiche, ambientali e quant’altro, possono essere presenti certe tecnologie e non altre, possono affermarsene alcune senza che si siano prima diffuse quelle precedenti (ad esempio in molte zone africane è per presente il cellulare mentre è molto meno facile trovare linee telefoniche fisse).

domenica 2 dicembre 2012

#Primarie

Ho sempre pensato, e continuo a pensarlo, che ogniqualvolta si chieda ai cittadini di esprimere la propria opinione la partecipazione di quante più persone possibile spinga un pochino più avanti la civiltà di un paese. Per questo motivo sono andato a votare con entusiasmo per le primarie del centrosinistra (ovviamente il motivo principale è che mi riconosco in quell'area politica), sia domenica scorsa che stamattina per il ballottaggio.

Al primo turno ho votato Vendola e oggi Bersani, nella speranza che qualcosa almeno un po' di sinistra si possa fare per migliorare questo paese. Renzi non mi ha mai convinto: sicuramente in tv e in rete vince, è più giovane, moderno ed è vero che la nostra classe politica va svecchiata e dovrebbero emergere nuovi soggetti con idee innovative ma non mi riconosco in tutto quello che dice.

Fatto sta che se vincesse Renzi (cosa che mi pare oggettivamente difficile) non sarà un dramma; penso che il risultato di queste primarie darà comunque forza non solo al vincitore ma soprattutto al PD e ai suoi alleati. E' un patrimonio di consenso e di partecipazione che non può andare sprecato. E sono sicuro che la "squadra" potrà fare bene.

Queste quattro banalità per dire inoltre:

  1. Le primarie sono un evento molto positivo, che nessun Grillo di turno potrà ridimensionare, e costituiscono un antidoto al qualunquismo.
  2. La libertà è partecipazione, come diceva Gaber, e mi sembra una frase verissima.
  3. La competizione, anche con toni duri, all'interno di un partito e di una coalizione fa soltanto bene perché fa emergere temi e idee, arricchisce i programmi, stimola i cittadini a fare di più essi stessi.
  4. La polemica sulle regole mi sembra un argomento tirato fuori per creare confusione e attirare consensi con la storia del "loro sono la vecchia politica e vogliono fermarci".
  5. Penso che sarebbe stato logico consentire alla gente di registrarsi anche questa settimana. Le regole di queste primarie però sono state stabilite settimane fa e accettate da tutti i partecipanti.
  6. Lo sapevano tutti che bisognava registrarsi prima, almeno online, e ci sono state tre settimane di tempo, dal 4 al 25 novembre. Che giustificazione vuoi portare per tre settimane? Chi si è registrato online ma non è andato a votare il 25 novembre stamattina può votare.


domenica 18 novembre 2012

@Zerocalcare secondo me

Una delle scoperte più piacevoli dell’ultimo anno (in generale, non certo mia visto il successo) è Zerocalcare, fumettista romano che dal giro dei centri sociali e delle piccole riviste di settore è progressivamente emerso pubblicando i suoi lavori anche su XL di Repubblica (ora non più) e da un po’ di tempo su Internazionale.
Il successo vero, credo, è arrivato col suo blog, in cui settimanalmente ha proposto una serie di storielle con lui protagonista alle prese con sua madre, i suoi amici, lo studente al quale fa ripetizioni, Trenitaja, il mondo del lavoro. Il passaparola su Facebook e sugli altri social network ha sicuramente avuto un impatto enorme sulla sua notorietà (insieme al sostegno ricevuto da un nome ormai affermato come quello di Makkox), ed è proprio a forza di link sparsi in giro - oltre che un paio di numeri di Canemucco, la vecchia rivista di Makkox, che acquistai a Romics - che un annetto fa io stesso ho iniziato a conoscere il suo sito.

E a ridere come un idiota davanti al pc ogni qualvolta usciva un nuovo episodio.

Siamo già al secondo libro, Un polpo alla gola, che sta riscuotendo un enorme successo dopo un altro best-seller come La profezia dell’armadillo (inizialmente autoprodotto e messo in vendita online e nel circuito delle iniziative legate a piccole librerie, fiere, centri sociali, ecc.) entrambi ora disponibili nelle edizioni di Bao Publishing.
Quello che amo di Calcare (del suo lavoro, ovviamente) è una vena comica che si basa su due aspetti fondamentali: la vita quotidiana di un trentenne medio (precario, con una madre apprensiva, con una serie di amici chi più chi meno altrettanto sfigati, preda di paranoie e seghe mentali) e la rielaborazione dell’immaginario pop di chiunque sia cresciuto dagli anni ’80 in poi. Così i personaggi di cartoon, film, videogiochi diventano di volta in volta personificazioni di stereotipi, idee, luoghi comuni, dubbi e incertezze che frullano nella testa di ognuno di noi. Una sorta di pantheon comune a una intera generazione.

Il risultato, per me, oltre ad essere spesso esilarante, è quello di ritrovarmi e riconoscermi in molte delle cose che racconta ZC. La sua forza sta proprio nei contenuti, nello stile del racconto e nei riferimenti; riuscire a muoversi in questo universo di citazioni (un po’ come fa Leo Ortolani con Rat-Man) o meno è sicuramente un requisito fondamentale per amare i suoi fumetti e non perdere buona parte del divertimento (io per esempio rido di più quando cita Star Wars, per mia deviazione personale). Rispetto a Rat-Man però i fumetti di ZC sono meno referenziali e consentono comunque una chiave di lettura non esclusivamente legata al gioco delle citazioni.

Gli episodi pubblicati di volta in volta sul blog sono spesso legati all’attualità (intesa anche come attualità della vita dell’autore/protagonista) e prendono spunto da cose con le quali tutti ci siamo probabilmente imbattuti quotidianamente; la brevità di queste storielle fa si che il “climax” arrivi in breve e l’effetto comico scatti subito, giocando molto con l’ironia ( e l’auto-ironia, visto che l’autore ci invita a ridere non solo di lui ma anche di noi stessi, delle nostre fissazioni e dei nostri problemi, veri o presunti che siano).
I due libri hanno un tono diverso, pur rispettando sempre gli elementi principali del suo stile; si tratta di storie che affrontano però un tema preciso, quello della crescita e dei momenti di passaggio dall’infanzia all’adolescenza  e poi all’età adulta, sempre con ZC e i suoi amici protagonisti. I momenti in cui ridere non mancano ma c’è una sorta di malinconia di fondo e i tempi sono sicuramente diversi. More about Un polpo alla gola
Dei due, anche se il vero successo di ZC è stato decretato soprattutto da La profezia dell’armadillo, penso che il più riuscito sia Un polpo alla gola, che ho trovato più “maturo” dal punto di vista dello stile e della consapevolezza dell’autore nel suo lavoro. Il primo libro sembra - dico sembra perché non so se sia effettivamente così - un collage di episodi originariamente scritti con altro scopo ai quali è stato poi trovato un filo conduttore attraverso il quale rielaborarli e rimetterli insieme. Il secondo invece dà maggiormente l’idea di una storia pensata, scritta e disegnata per essere tale, per questo dico che sembra più riuscito. L'Armadillo è emotivamente più intenso (non vi dico perché) mentre il Polpo è (quasi) più leggero, più arioso. Penso che preferire l’uno o l’altro dipenda molto da fattori personali.

lunedì 12 novembre 2012

Argo

Nel gennaio-febbraio del 1980 a Teheran 52 ostaggi americani erano rinchiusi nell’ambasciata americana (e lo sarebbero stati fino all’inizio dell’anno successivo). Ciò che nessuno in quel momento sapeva era che altri 6 diplomatici americani erano riusciti a scappare dalla loro ambasciata dopo l’assalto delle forze rivoluzionare e a rifugiarsi nella residenza dell’ambasciatore canadese.

Argo, il secondo film da regista di Ben Affleck, racconta come l’agente della CIA Tony Mendez riuscì a portare fuori dall’Iran questi 6 facendoli passare per la troupe di un film di fantascienza.
Sembra una boiata pazzesca. Un film di fantascienza in Iran, e chi ci crederebbe mai; i guardiani della rivoluzione, poi. L’operazione è passata alla storia come Canadian Caper.

E invece è andata proprio così: Mendez, con l’aiuto del truccatore premio Oscar John Chambers (interpretato nel film da un grande John Goodman) mise in piedi una falsa produzione e organizzò eventi di copertura per creare un contesto al film (una vera porcheria, un po’ Pianeta delle scimmie, un po’ Star Wars), da girare in Medio Oriente. In questo modo riesce ad arrivare a Teheran, facendosi passare per un produttore canadese.

Alla fine giudizio più che positivo, si tratta davvero di un buon film, ben scritto, con grande ritmo, non annoia mai e lascia l’idea di un grande lavoro di ricostruzione storica e documentazione: sembra davvero di stare a Teheran (chissà in quali città mediorientali è stato girato, forse in parte a Istanbul mi diceva l’amico con cui l’ho visto). Consigliatissimo, a super-caldo.

Infine, chicca per i fan di Breaking Bad: c’è anche un grande Bryan Cranston.

sabato 3 novembre 2012

Narrazioni trans-mediali, fra testo e contesto

More about Scatola neraNelle scorse settimane Minimum fax ha portato in Italia Scatola nera, un interessante esperimento letterario dall'autrice de Il tempo è un bastardo. Si tratta di un racconto scritto per essere pubblicato su Twitter in frammenti di massimo 140 caratteri (da pochi giorni disponibile in ebook).

Ciò che è qui importante è il modo in cui fluisce la narrazione non la storia in quanto tale (una bellissima donna mette a repentaglio la propria incolumità infiltrandosi come agente segreto nella vita di un super-criminale al fine di svolgere una missione fondamentale per la salvezza di migliaia di vite).
Si tratta secondo me di una vera opera aperta, utile per riflettere sui meccanismi di una narrazione che, in epoca di social network, web 2.0 e supporti digitali, si fa trans-mediale.

Inizialmente mi sono avvicinato a Scatola nera sbocconcellando senza un preciso ordine sequenziale i post pubblicati su Twitter da @minimumfax, senza continuità, fruendone come sorta di aforismi 2.0 che mi hanno lasciato libero di immaginare il contesto generale e la storia.

Frasi di 140 caratteri al massimo attraverso le quali il lettore ha potuto scomporre e ricomporre a piacimento una storia (non necessariamente la stessa storia immaginata dall’autrice), libero di saltare da un punto all'altro della propria timeline. In qualche modo mi ha ricordato i vecchi libri-game per ragazzi, che non venivano fruiti in maniera sequenziale dalla prima all’ultima pagina ma secondo le dinamiche interpretative proprie di ciascuno.

La successiva lettura lineare dell’ebook fornisce invece un quadro diverso perché il lettore ha la possibilità di completare tutti i buchi che la fruizione in timeline potrebbe aver lasciato, attivando un nuovo processo di interpretazione. Ovviamente ci sarà anche chi con costanza ha seguito tutti i tweet nel giusto ordine con cui venivano pubblicati ma questo uso “tradizionale” del testo mi sembra soprattutto legato alle abitudini culturali di chi legge piuttosto che alla natura del testo stesso.

Il fatto che un racconto venga pensato per essere pubblicato su Twitter in frasi di 140 caratteri (non considerando per ora la possibilità di pubblicarlo in “volume” e offrire a tutti la possibilità di leggerlo in modo più convenzionale) implica un diverso rapporto col Lettore; quest’ultimo potrà decidere quanti e quali porzioni di testo leggere, in che ordine, se e come mescolarle. Significa anche offrirgli la possibilità di costruire una nuova storia, diversa da quella immaginata dall’Autore.

Una storia (particolare per me più affascinante di questo nuovo approccio alla narrazione) con personaggi diversi e nuovi, che l’Autore non poteva proprio prevedere, frutto dell’interazione fra il testo in questione con gli n-testi prodotti ogni minuto su Twitter. Ogni persona che seguiamo, con i suoi tweet, interagisce con il “testo” (in questo caso “Scatola nera” ma il discorso meriterebbe un approfondimento generale) e ne fa nascere uno completamente nuovo: è la stessa timeline a diventare a sua volta un “testo” (anzi un ipertesto o ancora meglio un ipermedia) che non potrà essere ricondotto dentro i confini del libro se non dopo un ulteriore lavoro di interpretazione e rimediazione che non potrà però mai rispecchiare l’unicità del testo che ciascun lettore ha costruito per se stesso.

A questo punto abbiamo 5 tipi di testo:

  • il racconto così come l’ha pensato l’Autore;
  • l’insieme dei frammenti di testo pubblicati su Twitter nei modi e nei tempi decisi (in questo caso) dall’editore;
  • la versione unica e originale che ciascun Lettore ha ricostruito per se stesso fruendo di ciascun tweet in cui è stato scomposto il racconto;
  • il risultato dell’interazione di questi tweet con la timeline di ogni Lettore;
  • la timeline che da contesto diventa essa stessa testo.

Le potenzialità, semiotiche, di una narrazione trans-mediale stanno qui: essa dimostra che i confini di un testo sono in grado di spostarsi continuamente in avanti al punto da non poter più individuare un autore se non nella forma di una sorta di intelligenza collettiva formata dai contributi particolari di ciascuno sia per quanto riguarda la “produzione” sia per ciò che concerne l’interpretazione, che è sempre una nuova produzione di significato (e quindi di testo): Peirce 2.0, direi.

giovedì 1 novembre 2012

Chronic City, di Jonathan Lethem

Partiamo da un assunto fondamentale. A me Chronic city è piaciuto da morire, mi ha incantato, l’ho trovato folgorante.

Potrebbe essere sufficiente questo (il mio opinabilissimo giudizio) per buttarsi dentro al romanzo di Lethem e scoprire da voi di che si tratta. Ma poiché stiamo parlando di un’opera assolutamente particolare bisogna fare lo sforzo di individuare una chiave di lettura, sviscerarne alcuni temi e ricostruirne il contesto. Si tratta di uno di quei libri in cui apparentemente succede ben poco, in cui lo stile (ironico, divertente e colto) sembra prevalere sul resto ma, fidatevi di me, non è assolutamente così.

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OCCHIO: SEGUE QUALCHE INEVITABILE SPOILER SULLA TRAMA (ma senza svelare particolari colpi di scena di cui il libro è, secondo me, particolarmente ricco). 
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Ambientato in una New York indefinita e, direi, del tutto parallela a quella reale racconta le vicende di Chase Insteadman, ex ragazzo-prodigio delle serie-tv e ormai ex-attore che campa di diritti di immagine e della gloria passata, vive una nuova notorietà come il fidanzato di un’astronauta bloccata su una stazione spaziale (e impossibilitata a tornare sulla terra insieme al resto dell’equipaggio) la cui storia strappalacrime è quotidianamente presente su giornali e tv. Ma Chase non sente più niente per lei, non rammenta neanche più il suo volto tanto è lontano e annebbiato il suo ricordo. Non gli resta che fare altro che bighellonare per Manhattan e trascorrere le sue giornate con la variegata compagnia di giro che si riunisce intorno a Perkus Tooth, critico musicale e cinematografico molto noto 10 o 20 anni prima sulla scena culturale indie fissato con Marlon Brando e il fantomatico regista Morrison Groom.

Fra giornate passate a guardare le videocassette di Perkus, a fumare erba di varie qualità (fra le quali, appunto, una delle più pregiate è la chronic) e a frequentare il jet set newyorkese in virtù del suo ruolo di eterno fidanzato infelice ed ex star televisiva, Chase (l’uomo-invece, appellato per sbaglio nel corso del libro non-person) appare effettivamente come un personaggio non tanto in cerca d’autore ma quanto della sua stessa essenza.

Privo di personalità non gli resta che recitare la parte assegnatagli di volta in volta e mimetizzarsi camaleonticamente per sembrare quello che la gente si aspetta da lui. Ma questa vita così scialba e routinaria verrà progressivamente sgretolata sotto i colpi dell’eccentricità di Perkus e dell’amica ed ex assistente di lui Oona Laszlo, ghostwriter di professione dalla forte personalità che trascinerà Chase in una stranissima relazione apparentemente di solo sesso ma che ben presto diverrà, per lui, la sua vera storia d’amore parallela a quella ufficiale con l’astronauta Janice Trumbull.

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 E DIREI CHE GLI SPOILER SULLA TRAMA SONO SUFFICIENTI --------------------------------------------------------------------- 

Tutto si svolge, come dicevo, in una New York alternativa a quella vera, in un epoca indefinita ma comunque, senza mai nominarli, post-11 settembre e guerre in Afghanistan e Iraq (unico riferimento l’esistenza di una versione del New York Times “senza guerra”).  Una New York governata come nella realtà da un sindaco magnate dei media, sulla quale da alcuni anni è caduta una pesante nebbia che ha reso praticamente inaccessibile un pezzo di città; devastata periodicamente da una misteriosa, inafferrabile ed enorme tigre, scappata da chissà dove; nella quale si verificano periodicamente strani fenomeni (come un pervasivo e penetrante odore di cioccolato nell’aria, che alcuni invece percepiscono sotto forma di suono); dove si sta comunque realizzando una grandiosa opera d'arte dedicata alla memoria.

Alternativo è anche il paesaggio culturale: la gente legge Obstinate Dust (invece di Infinite Jest), guarda i film degli Gnuppets (al posto dei Muppets) e Marlon Brando potrebbe essere perfino vivo. Lethem ha imbottito il libro di riferimenti e citazioni di ogni tipo, inevitabile perdersene qualcuna.

La New York e l’America di Chronic City sono pervase da un profondo senso di inquietudine, così come tutto il romanzo, dettata dalla sensazione di non riuscire a leggere interamente la realtà e di non essere neanche in grado di interpretare correttamente quei frammenti che ci si ritrova davanti (fortissimo qui l'influsso di Dick sulla scrittura di JL, autore che ha contribuito al rilancio di PKD negli ultimi anni e alla sua rivalutazione critica).

Il romanzo di Lethem parla soprattutto di ossessioni e di ricerca del reale significato delle cose che ci accadono, che possono avere due, tre o infinite verità perché noi stessi cambiamo nel tempo, cambiamo per le persone che ci circondano (e cambiamo le persone di cui ci circondiamo) e magari dimentichiamo come tutto è cominciato. Per smettere di essere delle non-persone (o per evitare di diventarlo e ritrovarsi a recitare una parte scritta da altri) non si può far altro che fare attenzione anche al minimo dettaglio, perché anche il volo di uno stormo di uccelli al di sopra di una torre può far sbocciare la consapevolezza di cui abbiamo bisogno.
 
“La paranoia è un fiore nel cervello” dice Perkus a Chase.

La paranoia è un fiore nel cervello. A voi la corretta interpretazione, io la mia idea me la sono fatta.

venerdì 4 maggio 2012

Tokyo in realtà è la città di Blade Runner

Questo bel video mostra la città di Tokyo come se fosse uscita direttamente da Blade Runner (segnalato da William Gibson, @greatdismal, su Twitter).


martedì 1 maggio 2012

Le colonie spaziali della Nasa

Vi segnalo questa bella gallery proposta da Il Post sui progetti di colonie spaziali che i ricercatori della Nasa immaginavano negli anni '70.



A parte la bellezza delle illustrazioni, è interessante il fatto che quelle immagini mostrano come scienza e immaginario vadano spesso insieme, influenzandosi a vicenda, con risultati affascinanti anche quando, dopo 40 anni, quei progetti sono stati abbandonati.

L'esplorazione spaziale ha probabilmente perso il fascino di un tempo e l'idea che l'uomo debba colonizzare lo spazio è stata soppiantata dai moderni osservatori, dalle sonde e dai rover inviati su Marte ma provate sovrapporre a quelle immagini i vostri film, libri e fumetti di fantascienza preferiti.




giovedì 26 aprile 2012

Non è mancanza, è presenza

"[...] Quando ti viene una nostalgia, non è mancanza, è presenza, è una visita, arrivano persone, paesi, da lontano e ti tengono un poco di compagnia". [...] Le volte che mi viene il pensiero di una mancanza la devo chiamare presenza? "Giusto, così a ogni mancanza dai il benvenuto, le fai un'accoglienza".
Montedidio - Erri De Luca
More about MontedidioAnche se non si tratta di un libro di immaginario, qualche parola questo breve romanzo la merita.

Una storia poetica, breve, secca e veloce, come veloce è la maturazione dei protagonisti di Montedidio.
A Napoli, fra gli anni '50 e '60 crescere vuol dire imparare un mestiere, poco più che bambini, che ti tenga lontano dalla strada ma vuol dire anche capire giorno dopo giorno che il proprio corpo sta cambiando e con esso il proprio posto nel mondo; scoprire che i genitori non sono più indistruttibili; conoscere le cose dell'ammore e le schifezze del mondo degli adulti.
In pochi mesi la vita di un ragazzino può cambiare radicalmente, fra gioie, sofferenze e speranze per il futuro. Però a volte si cresce troppo in fretta.
Libro da leggere, a tratti commovente. La scrittura di De Luca è musicale, trae il meglio dalla lingua italiana e dal dialetto napoletano.

mercoledì 25 aprile 2012

Tre racconti e un editore che merita attenzione

40K è un editore digitale specializzato nella pubblicazione di racconti di fantascienza e fantastici esclusivamente in formato ebook, da un po' di tempo attivo anche in Italia. In questi giorni ho letto con piacere tre delle loro pubblicazioni (di cui vi dirò brevemente fra un po') e ho apprezzato il lavoro che svolgono nella realizzazione di prodotti editoriali che danno davvero l'idea delle potenzialità degli ebook.
Spesso, con i libri elettronici messi in commercio dagli editori tradizionali, si ha l'impressione di leggere una mera trasposizione in un altro formato del testo cartaceo (ad esempio con copertine che sembrano semplicemente scannerizzate oppure con testi pieni di refusi che paiono il risultato di un'importazione con un software OCR). 40K propone invece testi in cui si sfruttano le potenzialità degli ereader odierni, ormai tutti dotati di connessione wi-fi o addirittura 3G, con link e collegamenti ipertestuali; gli ebook 40K sono davvero molto curati, e le belle copertine (realizzate da Roberto Grassilli) sono solo l'aspetto più appariscente della loro attività.
Non ci vorrebbe molto a fare un buon lavoro con gli ebook, basterebbe crederci ma molto spesso gli editori tradizionali non hanno la vista abbastanza lunga e sono tutti concentrati sulla pirateria e sui prezzi ma non sui "servizi" da offire al lettore.

Veniamo ai tre racconti.

Cigno nero, di Bruce Sterling


More about Cigno nero Interessante racconto di Sterling, ambientato a Torino (dove il padre del cyberpunk vive da qualche anno). Particolare l'idea di fondo: una nuova tecnologia in grado di cambiare il mondo e le vite di tutti che uno dei due protagonisti vuole offrire all'Olivetti per il rilancio dell'industria italiana. Però la storia, nella sua estrema brevità, risulta un po' confusa: spionaggio industriale, attualità italiana (e europea), universi (Italie) paralleli...
Si tratta comunque di un racconto, come sempre nelle storie dell'autore texano, che in ogni pagina offre spunti e idee stimolanti.


Chichen Little, di Cory Doctorow

 

More about Chicken LittleDavvero un bel racconto, che merita attenzione. In un mondo in cui pochi multimiliardari possono permettersi di prolungare artificialmente la propria vita - all'interno di apposite vasche di contenimento attraverso le quali gli organi vengono progressivamente sostituiti dalla tecnologia nel proprio funzionamento - dando vita a una nuova forma di umanità in grado di sopravvivere per centinaia di anni il più grande affare può essere offrire loro qualcosa di cui non possono assolutamente fare a meno. Il lavoro del protagonista di questo racconto, allora, è proprio quello: agganciare un "mostro" e trovare qualcosa di estremamente costoso (e redditizio per la sua agenzia) da vendergli.

Una storia ambientata in un futuro non troppo lontano e non troppo diverso dal nostro presente, sul rapporto fra i soldi e il potere e nella quale ci si deve interrogare sulla libertà di cui godiamo (e se ne godiamo).


Vite segrete, di Jeff Vandermeer


More about Vite SegreteQuesto racconto è composto da una miriade di mini-racconti all'interno dei quali viene raccontata la "vita segreta" di un personaggio. Queste vite segrete sono qualcosa di particolare: alcune sono soltanto deviazioni dalla vita consueta di una persona, sconosciute ai suoi conoscenti, altre invece sono decisamente surreali e fantastiche.
Si va dal giardiniere seriale che passa le notti ad abbellire i giardini dei suoi vicini al collezionista di francobolli che scopre un paese un paese misterioso; dall'appassionato di Philip K. Dick che trova il modo per tornare indietro nel tempo e incontrarlo (in compagnia del regista di film western Sam Pekinpah) a una coppia di imprenditori rampanti dediti a ideare curiose invenzioni da regalare all'umanità.

La lettura di questi mini-racconti risulta assolutamente piacevole; alcuni di essi sono davvero affascinanti e comunque nessuno è banale. Ogni vita segreta è una finestra su quello che potrebbero essere le vite di ognuno, segrete o palesi, se solo ci lasciassimo andare alle nostre pulsioni e passioni e passassimo più tempo a fantasticare. 

martedì 10 aprile 2012

Dove vanno le storie che gli uomini non vivono?

E' in cielo che tu devi salire, Astolfo, [...] su nei campi pallidi della Luna, dove uno sterminato deposito conserva dentro ampolle messe in fila [...] le storie che gli uomini non vivono, i pensieri che bussano una volta alla soglia della coscienza e svaniscono per sempre, le particelle del possibile scartate nel gioco delle combinazioni, le soluzioni a cui si potrebbe arrivare e non si arriva... 
 Italo Calvino - Il castello dei destini incrociati

sabato 7 aprile 2012

Asterios Polyp: alla ricerca della propria metà perduta

Dal magma formato da cultura e società a volte emergono degli oggetti narrativi carichi di forza e significati in grado di trascendere ogni distinzione e classificazione fra cultura alta e bassa, fra un media e l'altro.

Uno di questi è, secondo me, Asterios Polyp, graphic novel dell'americano David Mazzucchelli, già diventato di culto per la sua raffinatezza e per la complessità del castello che l'autore ha disegnato (nel caso di Asterios è proprio il caso di dirlo) e servito al lettore.
Si tratta di un lavoro per il quale si può tranquillamente affermare che la letteratura (la grande letteratura) può manifestarsi anche in forme non proprie canoniche e secondo schemi innovativi.

  Cos'è Asterios Polyp: trama e struttura narrativa

 

Asterios Polyp è un architetto famoso soprattutto per il suo lavoro di teorico e studioso, affermato docente universitario che non ha però mai realizzato uno solo dei suoi disegni: meravigliosi ma irrealizzati castelli in aria.

Asterios ha 50 anni, ha avuto una vita di successo, è sempre stato un uomo brillante, in grado di sostenere qualsiasi conversazione, con un'opinione su tutto, o bianco o nero (sapendo sempre quando è bianco). All'inizio della storia, però, vediamo un uomo distrutto, solo e depresso, costretto a fuggire in fretta e furia dal suo appartamento a causa di un incendio, portando con sé soltanto tre oggetti che, scoprirà il lettore, rivestono per lui un particolare signficato: un accendino, un orologio e un coltellino svizzero multiuso.

E dopo una corsa a perdifiato per le scale, la casa distrutta alle sue spalle, decide ci intraprendere un viaggio verso il posto più lontano dove lo possono portare i pochi soldi che ha in tasca. Inizierà quindi un viaggio rituale che sarà allo stesso tempo un viaggio fisico verso un remoto paesino della provincia americana, un viaggio negli inferi alla ricerca della sua Euridice e infine un viaggio nella sua storia e nella sua coscienza. Incontrerà una serie di personaggi che lo guideranno ciascuno a modo suo alla riscoperta di se stesso.

Nella struttura narrativa, Asterios Polyp è pienamente post-moderno: una avanti e indietro nel tempo per rimettere insieme tutti i frammenti di cui si compone la storia fino al finale, tenero e romantico ma allo stesso tempo assurdo e grottesco. Mazzucchelli usa magnificamente le potenzialità del disegno e del colore, in tavole nelle quali sono le parole a fondersi alle immagini, che da sole già spiegano tutto.

Ah, dimenticavo. La voce narrante della storia è suo fratello gemello Ignazio, morto alla nascita ma sempre presente nella vita del nostro Asterios.



Oltre la narrazione: oggetti significanti non identificati 

 

L'impressione lasciatami da questo graphic novel va oltre le sue evidenti qualità artistiche. Ha acceso un po' di lampadine nella mia testa, che in parte hanno illuminato zone d'ombra dietro le quali può celarsi del significato, magari valido solo per me e nell'esatto momento in cui lo ho letto. Ho preso qualche appunto: le frasi sconnesse che seguono ne sono il risultato.

Asterios Polyp racconta una storia eterna, sulla dualità della natura umana. La percezione della realtà, si afferma con forza nel libro, viene mediata dal sé ed è quindi idealmente differente per ciascuno di noi. Partendo dal simposio di Platone, se l'Uomo è solo una parte di un essere diverso e più complesso non può fare a meno di bramare di ricongiungersi con l'altra metà.

Queste due metà, allora, possono essere intese come degli opposti che si attraggono per completarsi. Da questa doppia natura dell'uomo deriva una doppia realtà, che può farci vedere le cose in modo diverso. Ciascuna metà è diversa ma allo stesso tempo uguale all'altra: non bianco O nero ma bianco E nero. Non è detto che tutto debba essere definito come il conflitto fra due estremi, c'è invece un continuum fatto di sfumature.

Anche se non la vediamo, non è detto che la cosa che stiamo in realtà cercando non esista. Sono le sovrastrutture culturali che abbiamo interiorizzato che contribuiscono a dare forma al nostro modo di vedere il mondo. La cultura ci porta a semplificare le modalità di rappresentazione (e narrazione) del mondo: Astratto (ideale) e Funzionale vs Reale e Finzionale.

Scegliere un modello di rappresentazione rispetto a un altro può contribuire a determinare cosa vediamo del mondo e della realtà e cosa scegliamo di fare nostro. Ma compiendo questa scelta tagliamo fuori alcuni piani di realtà, rischiando di perdere con essi emozioni, esperienze, esistenze...

Quando ci accorgiamo di questa separazione cerchiamo di colmare un vuoto imponendoci ulteriori sovrastrutture, alle quali seguiranno altre sovrastrutture, in un rimando infinito, finché non ci accorgiamo che ci manca effettivamente qualcosa per essere davvero noi stessi (che ci sia stato portato via o che sia andato perso perché non siamo stati in grado di mantenerlo e conservarlo).
Quando le sovrastrutture crollano aumenta la consapevolezza e inizia il viaggio alla ricerca della metà (delle metà) perduta (perdute). È un viaggio a ritroso e allo stesso tempo in avanti per spogliarsi delle proiezioni del sé che hanno definito la visione del mondo in cui ci inscriviamo...

la realtà che abbiamo scelto
le scelte che abbiamo realizzato

Poter risalire all'origine di tutto ciò e modificare il mondo, trovare la pace, trovare le nostre metà perdute. È un processo infinito e spiraliforme di costruzione del sé, come figure all'interno di altre figure, che contengono altre figure...

Spirale logaritmica

mercoledì 14 marzo 2012

Chi ha paura del libro cattivo?

Sul Post (all'interno della rubrica curata dalla Scuola Holden) si discute sui libri che vale la pena leggere, se sia giusto o no leggerne alcuni piuttosto di altri, su come si forma il gusto e su chi può dire se un libro o un autore meritino attenzione oppure no.

La polemica è sfiziosa, e vecchia come il mondo (come i libri). Mi sono espresso sulla questione con un commento sul Post stesso che, anche probabilmente importerà solo a me,  riporto qui (il riferimento iniziale è alla citazione di Citati che si fa nel post):

Sostenere che piuttosto che leggere certi libri è meglio non leggere è spaventoso, oltre che estremamente snob (anche se Citati non lo ammetterà mai). Rivela l’idea che tanto chi legge “certi libri” non potrà mai capire la “vera” letteratura, non potrà mai crescere come lettore e formarsi un proprio gusto personale.
Non mi piacciono Faletti e molti altri autori di best-seller però a modo mio leggo anche cose che altri potrebbero giudicare “basse”. E’ sbagliato fare liste di proscrizione per i libri: è giusto che un ragazzo inizi leggendo ciò che più gli piace e lo diverte, poi la grande letteratura arriverà. Ci sono comunque cose interessanti anche in tanta letteratura di genere o “popolare”.
Insomma, non c’è solo il “canone” ma tante sfumature di gusto e di contenuto; anche la definizione di “artistico” in epoca contemporanea lascia il tempo che trova. Ci sono tanti scrittori sopravvalutati ma direi che si può lasciare a ognuno il diritto di dare i propri giudizi e di scegliere ciò che più gli aggrada.
In Italia si leggono già pochi libri: se un ragazzino si appassiona alla lettura con Harry Potter, ben venga. Io da adolescente leggevo solo Tolkien e Stephen King (che, nelle sue opere migliori, è comunque un grande narratore), da adulto spazio dai classici alla letteratura post-moderna, passando per tanta letteratura di genere. Quello che conta davvero è la capacità di contestualizzare un testo, coglierne il senso (o i sensi) con capacità critiche, trarne quello che di buono ha, indipendentemente da un puro giudizio “artistico” che raramente potrà essere oggettivo.
Rispetto a quanto scritto sul Post, aggiungo solo che si può parlare di oggettività solo dopo aver definito alcuni paletti, che determineranno il modo in cui guardare a un libro piuttosto che a un altro, visto che si parla di come consigliarne (e io sono uno che cerca sempre di spingere i libri che ama).

Un'altra questione, che meriterebbe ben altro approfondimento, è se oggi, almeno in Italia, si scrivano libri migliori o peggiori di una volta. Io, che sono relativista in tutto, penso che si scrivano soprattutto libri diversi. Basta che qualcosa ogni tanto la leggiate. Io non sono Citati.

venerdì 2 marzo 2012

I 15 migliori Dick

Se lo ha fatto Jonathan Lethem, qui, di indicare quelli che per lui sono i migliori libri di PKD, allora mi cimento anche io, che di romanzi di Dick ne ho letti quasi quanto Lethem (anche se non 3 o 4 volte). Non riesco a fare una classifica, li elenco quindi in ordine sparso.

  • Ma gli androidi sognano pecore elettriche?: ok, mi smentisco subito: questo sta in testa e basta, è la cosa - letterariamente parlando - più alta che Dick abbia scritto; se non lo avete letto non fatevi ingannare dall'aver visto Blade Runner, vi stupirà la quantità di idee che nel film non sono proprio presenti. E non chiamatelo Cacciatore di androidi o Blade Runner;
  • Ubik: il più conosciuto e il più letto; molte cose che vi sono sembrate davvero fighe in film come Il sesto senso, Matrix, Vanilla Sky, Apri gli occhi ecc. ecc. vengono da qua;
  • Le tre stimmate di Palmer Eldritch: una delle più grandi allucinazioni della letteratura mondiale;
  • Noi marziani: assolutamente commovente;
  • L'uomo nell'alto castello: lo conoscerete già come La svastica sul sole ma... vabbè avete capito; uno dei romanzi più ricchi di Dick, filosoficamente e psicologicamente; lo conoscono tutti come un libro di storia alternativa ma è molto molto di più.
  • Un oscuro scrutare: il libro più cupo di PKD, in cui racconta l'abisso della droga e lo sdoppiarsi della vita e della personalità di una persona;
  • Labirinto di morte;
  • Scorrete lacrime disse il poliziotto: forse il più intenso emotivamente, insieme a A scanner darkly;
  • Cronache del dopobomba: una delle sue opere più riuscite, una distopia ricca di personaggi dall'enorme umanità;
  • Tempo fuor di sesto: avete presente The Truman Show? Ecco, Dick era arrivato qualche decennio prima;
  • I simulacri: un romanzo corale sul potere, sulla manipolazione e sul fallimento individuale;
  • Lotteria dello spazio: il primo romanzo pubblicato da Dick, nel quale i governanti del mondo vengono decisi con un gioco, già geniale;
  • Confessioni di un artista di merda: il suo capolavoro mainstream;
  • Valis: il mio preferito di tutta la trilogia scritta dopo i fatti del febbraio-marzo 1974; qui PKD ha svelato al mondo cosa aveva davvero nella testa: non uno dei più godibili, piacerà soprattutto ai fan accaniti e ai lettori desiderosi di entrare nella visione dickiana delle cose;
  • Occhio nel cielo: forse in assoluto non è uno dei migliori ma sono legato a questo libro perché l'ho letto in un momento particolare della mia vita.
E questi, solo per rimanere ai romanzi. Giusto per citare qualche racconto, recuperate almeno La formica elettrica, Rapporto di minoranza (altra cosa rispetto al film di Spielberg), Impostore, Ricordiamo per voi, I giorni di Perky Pat.

16 dicembre 1928 - 2 marzo 1982

Sono passati trenta anni esatti da che uno degli scrittori più importanti e (nonostante la moda degli ultimi anni) misconosciuti della seconda metà del '900 venisse catturato dal raggio rosa di Valis per ritrovarsi nuovamente in compagnia di Horselover Fat.
Dick è stato (è), forse lo scrittore di fantascienza più famoso di sempre, quello che ormai tutti leggono, anche gli snob che ancora fanno finta di non capire che la fantascienza sia una cosa seria. Usare però l'etichetta di science-fiction writer può risultare limitante, perché Dick è stato prima di tutto un grandissimo scrittore tout court e pensatore. Magari non tutti i suoi libri sono dei capolavori, alcuni però rientrano in quanto di meglio abbia prodotto la letteratura americana negli ultimi 50-60 anni.
Amo Dick (ormai da almeno 12 anni: il primo romanzo che lessi era La penultima verità, uno dei meno conosciuti; poi vennero tutti gli altri, quasi tutti ormai) perché mi ha mostrato che non bisogna mai essere certi di niente, neanche di quello che ci troviamo davanti agli occhi. In Dick ho ritrovato inquietudini e dubbi che sentivo dentro di me; non che io pensi, come Phil dal 1974 in poi , che viviamo in realtà nell’antica Roma e che il secolo dai noi abitato sia un realtà un’illusione ma il suo interrogarsi sul mondo credo sia molto comune.
Era ossessionato dalla realtà – quella cosa che, quando smetti di crederci, non sparisce scrisse in Valis – ma non perché fosse schizofrenico o fosse sempre sotto l’effetto dell’LSD (ne girano di leggende). Pur autodidatta (e forse proprio perché autodidatta) in ambito filosofico, ha esplorato con dedizione per tutta la sua vita la realtà noumenica sottostante a quella fenomenica. E, sicuramente, se ne sarà andato senza aver trovato una risposta definitiva.

giovedì 1 marzo 2012

Percezioni reali per oggetti impossibili

Phlegm, Sheffield

A volte lungo il percorso attraverso l'immaginario si seguono percorsi particolari e ci si imbatte in curiose coincidenze. Leggevo, giusto l'altra mattina, di illusioni e figure impossibili*; di come la realtà fisica ci possa apparire in modo in modo differente da come realmente è; di come i meccanismi della percezione possano farci sembrare come perfettamente plausibili cose del tutto inesistenti.


Triangolo di Reutersvärd

Uno dei più famosi oggetti impossibili è il cosiddetto triangolo di Penrose, creato per la prima volta dall'artista svedese Oscar Reutersvärd nel 1934 e reso celebre successivamente dal matematico Roger Penrose. Il triangolo impossibile, quindi, è una figura che può esistere solo bidimensionalmente e che soltanto un'illusione ottica rende plausibile per il nostro cervello, come nell'immagine di fianco.
 E proprio dopo aver letto di queste illusioni mi sono imbattuto nell'opera che apre questo post, realizzata dallo street artist Phlegm a Sheffield. 
Ma si tratta solamente di uno dei tanti esempi di triangolo impossibile nelle arti figurative, a cominciare da Escher.  


Escher - Relatività

Escher - Cascata

Anche se la teorizzazione del triangolo impossibile è relativamente recente, in pittura è possibile trovare anche esempi precedenti, come in Bruegel.

Pieter Bruegel - La gazza sulla forca

*Piergiorgio Odifreddi, C'era una volta un paradosso, gradevole testo di divulgazione che spazia dalle illusioni percettive fino ai paradossi della filosofia e della matematica.

martedì 28 febbraio 2012

Ancora sull'androide PKD, che stavolta perde la testa

Qualche anno fa apparve una notizia curiosa, che segnalai su Immaginaria: l'androide Philip K. Dick era stato rubato!

Si trattava di un automa (androide mi sembra un termine troppo ambizioso) con le sembianze di PKD in grado di "conversare" con i suoi interlocutori (chissà se alla domanda che cos'è la realtà avrebbe risposto: è quella cosa che quando smetti di crederci non sparisce) protagonista di una misteriosa sparizione.

Uno dei ricercatori coinvolti nella vicenda ci ha scritto su un romanzo, che sarà pubblicato da Fanucci nei prossimi giorni (qui maggiori dettagli).

C'era una volta il cinema muto

Se qualcuno non se ne fosse accorto, la scorsa notte l'Academy ha assegnato gli Oscar e il film trionfatore dell'edizione 2012 è stato The Artist, cosa che mi fa piacere perché si tratta di una pellicola che ho apprezzato molto. Non avendo visto tutti gli altri film in gara (anzi quest'anno ne ho visti pochi, quasi nessuno) non posso onestamente dire se sia stata la scelta più azzeccata ma alla fine poco importa perché tanto le logiche degli Academy Awards possono piacere o meno ma non sempre seguono criteri puramente artistici (cinematografici, direi).

Queste logiche, però, intercettano il gusto del momento (facendo la media fra l'effettivo valore di un film, comunque difficilmente oggettivabile, il successo di critica e pubblico, la spinta delle grandi case di produzione).
E allora che momento è questo, per il cinema e più in generale per la cultura contemporanea, se il "miglior" film dell'anno è un film muto, in bianco e nero, che descrive il passaggio dal muto, appunto, al sonoro (tema assolutamente non nuovo per il cinema), che ha come protagonista un divo sconfitto che viene dimenticato e che racconta una storiella d'amore?

C'è chi ha sostenuto che il successo di questo film sia legato soprattutto alla nostalgia per i tempi andati, ma non sono molto d'accordo*. Altrove, c'è chi sostiene che si tratti soprattutto di un'opera di maniera, ben realizzata, molto curata e molto laccata ma che alla fine (a parte l'espediente di fare un film quasi del tutto muto come li facevano ai tempi del muto) non presenta niente di veramente originale, oltre che non confrontarsi davvero con la realtà.

Ecco, pur pensando che The Artist sia un buon film bisogna riconoscere che non si tratta di un capolavoro e che forse, anzi quasi sicuramente, non farà la storia del cinema.
Per questo blog, che della categoria dell'immaginario fa il proprio punto di riferimento, forse la pecca maggiore di The Artist è che non fa immaginario. E se gli Oscar, come detto, rappresentano il momento del cinema, allora temo che sia il cinema, almeno quello "americano" (in senso lato), a non produrre immaginario, o almeno a soffrire di una sorta di asfissia di idee.

Però forse c'è vita là fuori.

*Aggiornamento del 28/2: A questo proposito ieri sera mi era sfuggita un'altra considerazione, e cioè che la storia del divo che cade in disgrazia ma che alla fine riesce in qualche modo a ricostruirsi una carriera ha invece un valore contrario a quello che diceva Piccolo in quell'articolo da me commentato: che per non soccombere è necessario rinnovarsi e reinventarsi. Questo punto, anche se può sembrare in contraddizione con le conclusioni del post, è forse proprio ciò che ne ha decretato il successo, più che l'apparente effetto c'era una volta.

sabato 25 febbraio 2012

Brain training, life training

Ho sempre, sinceramente, pensato che per produrre un'opera originale (e uso la parola opera in senso lato, come una produzione dell'ingegno e della creatività) spesso non basti il talento puro. Non è possibile scrivere Infinite Jest (visto che siamo nella settimana di #DFW50), inventare la lampadina, scoprire la penicillina o creare il web solo con la pura ispirazione ma è necessaria una grande dedizione alla propria vocazione (quella in qualche modo serve sempre).

 Gli studi dello psicologo cognitivo Anthony McCaffrey, di cui parla oggi La Repubblica, vanno proprio in questa direzione. Al di là del valore scientifico della ricerca (che non sono assolutamente in grado di giudicare), mi affascina moltissimo l'idea che la creatività non sia legata soltanto al genio individuale. O meglio, che il genio da solo non sia sufficiente per ottenere successi e riconoscimenti.

Bisogna essere degli stakanovisti, fare ogni giorno i propri "esercizi", allenare il cervello a costruire nuove connessioni, a rielaborare la realtà secondo schemi innovativi e mai visti prima. Quando non si fa ciò e si inizia a battere strade già conosciute ci si impoverisce inevitabilmente, le nostre idee perdono in originalità, le aspirazioni evaporano e tutto diventa routine e prevedibilità.
La creatività è faticosa. Essere creativi richiede impegno. Riempire le proprie vite di novità e far sì che da queste nasca qualcosa di bello e importante, per sé e per gli altri, è una cosa che richiede, quindi, anche un grande lavoro su se stessi per imparare ad aprirsi alla realtà, a leggerla e a riconoscere quegli spiragli di luce in cui infilarsi per riemergerne con nuove idee e passioni. 


martedì 21 febbraio 2012

L'era dello spettacolo

"Anno del Pannolone per Adulti Depend: InterLace TelEntertainment, Tp da 932/1864 Risc power-Tp con o senza consolle, Pinkj, disseminazione Dss post-Primestar, menu e icone,fax InterNet senza pixel, tri- e quad-modem con baud regolabile, griglie per la disseminazione post-Web, schermi a definizioni così alta che ti sembra di essere lì, conferenze videofoniche dai costi contenuti, Cd-Rom con Froxx interno, alta moda elettronica, consolle multiuso, nanoprocessori Yushityu in ceramica, cromatografia al laser, mediacard virtuali, impulsi a fibre ottiche, codificazione digitale applicazioni killer; nevralgia carpale, emicrania fosfenica, iperadiposi dei glutei, stress lombare.
[...] Dire che tutto questo è un male è come dire che il traffico è un male, o che le sovrattasse sulla salute o i rischi della fusione anulare sono un male: solo i freak luddisti mangiacereali direbbero che è male una cosa senza la quale non si riesce a vivere.
Ma così tanto di questo spettacolo privato fatto di schermi personalizzati e guardato dietro le tende tirate nella sognante familiarità della propria casa. Un mondo galleggiante di non spazio di visioni private.
Da qui la passione del nuovo millennio di assistere alle cose che succedono in dretta. [...] Ecco gli Ingorghi dei Curiosi davanti agli incidenti stradali, alle esplosioni per fughe di gas, rapine, scippi, l'occasione veicolo di scarico dell'Empire con un vettore incompleto che si va a schiantare nei sobborghi della North Shore e rade al suolo intere comunità e la gente lascia aperte le porte di casa nella fretta di uscire e intrufolarsi e fermarsi a guardare il mucchio di rifiuti precipitato che attira una folla sobria e attenta, che si dispone in cerchio attorno al punto di impatto e confronta con serietà le osservazioni mentali su quello che tutti loro stanno vedendo. Da qui l'apoteosi e la gerarchia sociale decisamente complicata dei musicisti di strada a Boston, i migliori dei quali vanno al lavoro con macchine tedesche.
[...] Il cameratismo e la comunione anonima di far parte di una folla di spettatori, una massa di occhi nessuno dei quali è a casa propria, tutti fuori nel mondo e tutti puntati nella stessa direzione. [...] Qualsiasi cosa attira la gente. Sono ricomparsi i venditori ambulanti. I veterani senza casa e le figure tutte storte sulle sedie a rotelle con i cartelli scritti a mano che spiegano la loro condizione.  Giocolieri, freak, maghi, mimi, predicatori carismatici con microfoni portatili. [...] Cultisti con tuniche color zafferano con percussioni e volantini stampati a laser. Perfino gli euromendicanti europei vecchio stile, gente con le sopracciglia nere e i pantaloni a righe, muti e fermi. Perfino i candidati locali, gli attivisti, i consiglieri e gli aiutanti di base sono tornati in pieno con tutta la loro organizzazione a fare comizi in pubblico - la piattaforma con le bandiere, i coperchi dei cassonetti dell'immondizia, i tetti degli autoveicoli, i tendoni, tutto ciò che sia sopra le teste della gente, qualsiasi cosa che si elevi a catturare l'attenzione del pubblico: la gente si arrampica e declama e attira spettatori."

[David Foster Wallace - Infinite Jest]

#DFW50

Domani David Foster Wallace compie 50 anni. Sì, compie 50 anni perché per chiunque abbia avuto il piacere incontrare i suoi libri DFW è ancora vivo. Il suo suicido è solo un infinite jest, uno scherzo.

Mi ritengo enormemente fortunato per il solo fatto di aver letto un libro come Infinite Jest, semplicemente una delle opere più grandi, commoventi, coinvolgenti, brillanti, ricche, intellettualmente stimolanti, fantasiose, geniali della letteratura contemporanea. Un libro che non lascia chi lo legge uguale a se stesso ma che produce delle trasformazioni, inevitabilmente.

Domani David sarà ricordato in vari modi, chi vorrà scriverà di lui su Twitter usando l'hashtag #DFW50; l'Archivio DFW ha organizzato la lettura collettiva de Il re pallido, l'ultimo volume pubblicato in Italia (di cui ho parlato qui).

domenica 19 febbraio 2012

Vita reale

- Mi arrendo, qual è la vita reale dell'uomo?
- Non esiste. Esiste solo il bisogno di arrivare a una vita reale. Tutto quello che non è reale è la vita reale dell'uomo. 


[Philip Roth, Operazione Shylock]

sabato 18 febbraio 2012

26 lettere, 26 film

L'alfabeto in 26 film.  Indovinarli tutti è una cosa davvero da cinefili (una buona parte non mi sono chiari, lo ammetto).


ABCinema from Evan Seitz on Vimeo.

venerdì 17 febbraio 2012

La farfallina 2.0

Questa settimana accade un fenomeno curioso: l'Italia si ferma per guardare #Sanremo, e per dire che #Sanremo fa schifo.

Premesso che faccio parte di quella fetta di italiani che il Festival non lo guarda perché proprio non gli interessa (e chi lo guarda dirà che sono snob: no, non mi piace, lo rifiuto, preferisco guardare Milan - Arsenal e leggere Operazione Shylock di Roth, io non guardo nemmeno i varietà alla Fiorello figurarsi il Festival della Canzone Italiana), purtroppo so tutto di esso o comunque è come se ne sapessi qualcosa. Alzi la mano chi non è stato coinvolto in qualche discussione su uno di questi argomenti (escludo deliberatamente le canzoni, dubito che le abbia ascoltate anche chi ha visto lo show):
  • la salute della modella ceca Ivana Mrazova;
  • le battute di Luca e Paolo;
  • Gianni Morandi
  • il sermone di Celentano (l'inutile diatriba sul perché, dopo che è stato pagato centinaia-di-migliaia di euro per fare quello che fa sempre in tv, abbia, stranamente, deciso di fare il Celentano);
  • le vallette di riserva Rodriguez e Canalis;
  • Loredana Berté che sembra Richard Benson (per chi lo conosce);
  • i Soliti Idioti;
  • le mutande di Belen e la sua farfallina (il tatuaggio, che avete capito).
Potrei sostenere una qualche conversazione praticamente su ognuno di questi punti (soprattutto sull'ultimo) pur senza aver visto non più di 5 minuti in tutto  di Festival (lo ammetto, subito dopo l'apparizione della farfallina, che non sono riuscito a vedere in diretta). Oggi è impossibile sfuggirne, molto più di quanto accadeva fino a qualche anno fa quando Sanremo vi inseguiva al lavoro, a scuola, al bar ma in qualche modo arrivava il momento in cui uno poteva spegnere tutto e pensare ai fatti suoi.

E sapete perché? Non perché, o non solo, tutti i giornali, i telegiornali e i principali siti di informazione non fanno altro che parlarne.

No, soprattutto perché Sanremo ve lo ritrovate sulle vostre pagine Facebook e Twitter, nei blog dei vostri amici, nei loro Tumblr, ecc.. C'è chi ne scrive in diretta per raccontare e commentare in tempo reale tutto quello che sta passando sullo schermo (quando si parla di citizen journalism...), non sia mai che qualche disgraziato ne rimanga all'oscuro. C'è chi non può esimersi dal far sapere agli altri che lo sta guardando ma solo per vedere quanto sia trash mentre altri devono per forza informarvi che non ne hanno seguito manco un minuto, che non gli interessa, che loro la farfallina di Belen non l'hanno vista (ma gli sarebbe piaciuto).
C'è perfino chi usa gli hashtag #Sanremo e #Belen come metro di paragone per tutte le altre notizie (però finisce comunque nello stesso calderone) e che ci sono cose ben più importanti. E quelli che devono per forza usare Twitter per fare battute su Sanremo (così, poi, se qualche comico ne farà di simili potrà dire che gliele ha rubate).

Non se ne esce, non se ne può uscire: è il Web 2.0 bellezza, quello dei contenuti prodotti dal basso, di questo stream infinito in cui tutti commentano e dicono la loro, della libertà e delle grandi potenzialità di espressione offerte dai social media.

Grandi potenzialità di espressione. 

Libertà.

...

Ma sì dai, in fondo ne ho appena parlato anche io.

martedì 14 febbraio 2012

Un film è un film è un film è un film

In questa stagione cinematografica non ho visto moltissimi film, né al cinema né in home video, e non ho trovato niente che mi abbia davvero entusiasmato e che sicuramente ricorderò nei prossimi anni, tranne forse Drive (ovviamente per mia mancanza, di bei film ne escono sempre ma ogni tanto me ne perdo qualcuno). Fra i film che ho visto, però, uno che ho apprezzato davvero tanto è The Artist, pluricandidato all’Oscar (vedremo se porterà a casa qualche statuetta).
Non la faccio tanto lunga sul perché mi sia piaciuto: ne ho apprezzato sia il soggetto e la sceneggiatura (amo sempre i film che parlano di cinema) che gli aspetti più tecnici e cinematografici. Gli attori, poi, li ho trovati bravissimi.
Accenno qui a questo, secondo me, bel film per riprendere l’articolo di Francesco Piccolo uscito domenica sul Corriere, La sinistra è come mia zia. Partendo proprio dall’analisi di The Artist, Piccolo sostiene che questa pellicola riscuota successo in alcuni settori intellettuali perché affine allo spirito di cerca sinistra definita sempre “reazionaria”, “passatista”, che non guarda al futuro, ecc.
In The Artist, film muto che racconta la storia di un divo, appunto, del muto che cade in disgrazia col sonoro (tema non nuovo al cinema, si veda almeno Viale del tramonto), secondo Piccolo lo spettatore si identifica empaticamente col protagonista (che, per lo scrittore, sarebbe un vecchio relitto destinato a sparire insieme al suo mondo) proprio per una sorta di effetto “quanto era bello il piccolo mondo antico” a cui, per Piccolo, quelli di sinistra sarebbero tutti legati. A esempio di ciò, Piccolo cita anche lo scrittore Jonathan Franzen (prima o poi leggerò “Le correzioni”, che mi aspetta sullo scaffale da qualche anno) che ha sostenuto che gli ebook fanno male alla cultura e alla letteratura.
Nella sostanza, mia zia ottantenne, Franzen, il ceto medio riflessivo e gli intellettuali che lo rappresentano passano tutta la vita a difendere il cibo come si faceva una volta, le piccole librerie di quartiere con l’odore dei vecchi libri, il telefono fisso. Pierluigi Bersani e Susanna Camusso difendono l’articolo 18, altri le vecchie lire, Michel Platini e Diego Maradona, gli sceneggiati in bianco e nero, la commedia all’italiana, la bicicletta, il vedo non vedo dell’erotismo contro la sfacciataggine di oggi. C’è perfino chi rimpiange la Democrazia cristiana, era meglio Andreotti, e Cirino Pomicino non era così male.
Ora, dico io. Che ci sia gente che, in generale, rimpianga il passato è un dato di fatto. Non sopporto però quando si fanno delle generalizzazioni del tutto infondate. Essere di sinistra in questo paese non vuol dire una cosa sola ma, purtroppo o per fortuna a seconda dei punti di vista, sentirsi più vicini ad una certa sensibilità piuttosto che a un’altra (non mi va di stare a parlare di sinistra riformista e radicale, di borghesi radical chic e di “classe operaia”, non è questo il punto). Io rifuggo da queste classificazioni e pecca di presunzione chi prende a pretesto un film per stabilire che da una parte ci sono gli innovatori e i riformisti (la sinistra non “reazionaria”, in cui ovviamente Piccolo si inserisce) e dall’altra una massa di conservatori.
Concludo con alcune brevissime, personali, considerazioni:
1.       a me The Artist è piaciuto molto;
2.       nonostante abbia apprezzato il film, pensate un po’ che strano, sono più che favorevole agli e-book e ho comprato da poco un e-reader (Piccolo mi deve spiegare perché, secondo lui, tutti quelli di sinistra dovrebbero far propria l’opinione di Franzen);
3.       non vedo perché, se mi è piaciuto The Artist, come dice Piccolo dovrei, a priori, rimpiangere il passato e perché, sempre per definizione, dovrei essere uno strenuo sostenitore dell’art. 18 (che penso difenda dei diritti sacrosanti ma ritengo anche che cambiarlo non sia poi uno scandalo: qualsiasi riforma del mercato del lavoro è meglio di quello che c’è adesso, anche se qualcuno dovrà spiegarmi il nesso fra occupazione e art. 18 visto che per me non è così automatico);
4.       un film è un film: può piacere indipendentemente da quello che si pensa di altre cose; posso contemporaneamente apprezzare The Artist e leggere e-book, posso amare la bicicletta (altra mia grande passione oltre ai libri e al cinema, anche se Piccolo pensa a chi la usa “politicamente”: io ci faccio sport ma è lo stesso) ma essere allo stesso tempo attento a ciò che di nuovo accade nel mondo e alle trasformazioni sociali e culturali indotte da Internet e dal Web. Perché una cosa dovrebbe escluderne un’altra?
Se qualcuno ancora non è andato al cinema, vada a vedere ‘sto film. Se ne varrà o meno la pena dipenderà dal proprio gusto personale e non dall’essere o meno “reazionari”.

lunedì 13 febbraio 2012

Una sfortunata lettura

More about Una sfortunata mattina di mezza estate Io sono uno di quelli che un libro lo finisce comunque, anche quando non gli piace. Di solito seleziono bene le mie letture, è difficile che legga qualcosa che, per un verso o per l'altro, mi deluda del tutto. Ma ogni tanto capita. E ho sbagliato io a tornare sul luogo del delitto, visto che uno dei pochi libri che in vita mia ho mollato lo ha scritto sempre Will Self (Dorian, un Dorian Gray in chiave contemporanea).
Ho sbagliato lo so ma ci sono cascato.

Che poi questo Una sfortunata mattina di mezza estate si presenta bene, potrebbe anche essere un buon libro. Ambientazione fantastica e grottesca in uno sterminato continente-isola a forma di V non meglio specificato, popolato da numerose etnie e governato da complesse norme sociali, in cui uno dei comportamenti (reati) più gravi è fumare dove non consentito (praticamente ovunque). E proprio da un mozzicone di sigaretta gettato dalla finestra iniziano le disavventure del progatonista che si trova fagocitato nell'assurdo sistema giudiziario del continente e costretto a intraprendere una sorta di viaggio iniziatico per espiare le sue colpe. Un viaggio che significherà mettere in dubbio le proprie certezze e che dovrebbe rappresentare, per il lettore, una critica di alcuni aspetti della società e della cultura occidentali.

Messa così, la vicenda è ricca di spunti e Self qualche buona idea la tira fuori però... l'unico aggettivo che mi sento di usare è scialbo, nonostante sia scritto bene, con uno stile raffinato. Proprio per questo, però, risulta troppo di maniera e poco di sostanza.

Avesse la tensione drammatica, la profondità e la lucidità di un libro di Ballard (a cui Self viene paragonato: no comment), potrebbe essere straniante e allucinante come i libri del grande scrittore inglese. Ma non lo è, anche perché per tutto il romanzo c'è la sensazione di non riuscire a capire dove vada a parare la vicenda. E il finale non fa che confermare questa idea.
Fosse almeno divertente, venato di umorismo e satira, acquisterebbe maggiore consistenza.

Ma non è nemmeno questo.

Il re pallido (un non-romanzo)

More about Il re pallidoPrima avvertenza: se non avete mai letto nulla di DFW prima, allora Il re pallido non è il libro per voi.

Seconda avvertenza: se cercate il piacere di una lettura leggera e senza complicazioni, di una trama scorrevole dove tout se tient e che vi accompagni fino a un memorabile epilogo, allora Il re pallido non è il libro per voi.

Quando vi hanno detto che questo è un romanzo postumo e incompiuto, beh, non mentivano.
Ma c’è di più, questo forse non è nemmeno un romanzo e non nel senso che la letteratura post-moderna ha prodotto tanti libri che esulano dai canoni tradizionali che definiscono un’opera. Non è solo una questione da critica letteraria per fare una dotta dissertazione sulle infinite possibilità di interpretazione di un libro ecc. ecc.. Il re pallido non è un romanzo nel senso che non è un romanzo proprio perché incompiuto e manchevole di una struttura definita e unitaria (molti libri sono rimasti incompiuti ma questo forse più di altri).


Tutti questi inutili giri di parole (ovvio che la definizione di “romanzo incompiuto” implica che stiamo parlando di un romanzo ma non nel senso tradizionale, ecco) per dire che il volume che forse avete preso fra le mani è soprattutto il risultato dello sforzo dell’editor Michael Pietsch che si è immerso nel lavoro di David Foster Wallace e ne è riemerso con una enorme e disordinata mole di appunti, storie e personaggi.
Abbiamo quindi a che fare con un’idea, un’idea di romanzo. Forse è questa la definizione giusta ed è questo l’approccio corretto nei confronti di questo libro.

Libro, così come lo possiamo leggere noi adesso, composto dalle storie di quelli che, all’apparenza, dovrebbero essere oscuri e grigi funzionari dell’Agenzia delle Entrate americana, dove l’autore ha lavorato per un circa un anno a metà degli anni ’80 (e lo stesso DFW diventa a sua volta materia narrativa comparendo come personaggio fra gli altri e come “autore”).
L’incompiutezza del romanzo fa sì che non tutti i nessi fra i protagonisti siano chiari e non tutti i personaggi risultino pienamente sviluppati; molti frammenti che compongono il libro possono essere presi come realtà a se stanti, veri e propri racconti che, in alcuni casi, potrebbero vivere anche autonomamente. Altri invece... sono frammenti, appunto.

Tutto ruota intorno al senso dello scorrere del tempo, alla consapevolezza di sé e degli altri (in senso sia fisico che “spirituale”) e al percorso che ognuno compie per arrivare a essere quello che è, con un chiave di lettura fondamentale: la noia.
Le parti più riuscite sono proprio quelle in cui David indaga il “noioso” e il meccanismo che c’è dietro, in termini di percezione del tempo e di sé: la noia è ciò che si definisce per opposizione a quanto proviamo quando siamo in piena attività; è ciò che rimane quando siamo chiusi in situazioni che non permettono distrazioni e che non lasciano vie di fuga. C’è chi sa conviverci, chi la sperimenta in vari modi, chi la combatte, chi ne viene sconfitto. Tema affascinante e forse determinante in una cultura come la nostra, permeata, di fatto, dalla ricerca della distrazione continua (dominata dall’intrattenimento, cfr. Infinite Jest).


Quindi, da leggere? A me è piaciuto, al di fuori di un’idea convenzionale di letteratura. Il re pallido non può essere giudicato in maniera completa per quello che è e forse, anzi quasi sicuramente, nemmeno per quello che sarebbe dovuto essere. È comunque un’esperienza di lettura che non potrà lasciare indifferente chi avrà voglia di confrontarsi con un libro così particolare.

Il tempo è un bastardo

More about Il tempo è un bastardoUn vero piacere, la lettura di questo romanzo. Scorre magnificamente: non vedi l'ora di arrivare alla fine, di capire tutte le connessioni fra i personaggi, di assaporare ogni trovata e idea (un capitolo scritto come una presentazione Power Point: geniale!) dell'autrice, Jennifer Egan, e quando sei arrivato/a in fondo ti rimane quel sapore agrodolce in gola tipico di un libro che, allo stesso tempo, ti ha divertito e ti ha messo faccia a faccia con la realtà.

Il tempo è un bastardo è costruito come un collage di storie che si dipanano dagli anni '70 fino a un imprecisato 202- (assemblate senza un’apparente logica temporale, saltando avanti e indietro nel tempo) e che direttamente o indirettamente ruotano tutte intorno al produttore musicale Bennie e, soprattutto, all'affascinante Sasha (ora assistente di Bennie, ora giovane studentessa in una New York frenetica, ora ragazza perduta in giro per Napoli alla ricerca di se stessa, ora madre matura).

Ogni capitolo è focalizzato su un personaggio e fotografa un momento centrale legato a una qualche trasformazione occorsa nella sua vita e a ognuno di essi l’autrice da voce con un linguaggio e uno stile peculiari (al passato o al presente; ora in prima, ora in terza, ora, addirittura, in seconda).
Ogni episodio cela dietro di sé un abisso nero difficile da penetrare in cui finiscono i sogni infranti di giovani musicisti, artisti, studenti, sognatori, donne in carriera. Alcuni di essi in qualche modo riescono a riemergere e a costruirsi la propria vita, ad andare avanti e creare qualcosa di nuovo e dotato di significato. Altri invece si perdono, perché troppo deboli e fragili oppure perché, al contrario, troppo avidi di vita.

Come detto, Sasha è il filo conduttore di tutto il libro anche se compare effettivamente come protagonista soltanto nel primo capitolo; il romanzo prosegue in modo quasi circolare raccontando le vicende di una vasta galassia di personaggi che, direttamente o indirettamente, hanno avuto a che fare con lei o con qualcuno che lei ha conosciuto (in una sorta di riedizione della teoria dei sei gradi di separazione). Così, saltando da una storia all'altra, il lettore scopre ogni volta pezzetti di vita così vividi da sembrare reali e, in qualche modo, diventa egli stesso un personaggio del libro, l'unico a cui sia concesso il privilegio di venire a sapere che fine abbia fatto Sasha, proprio perché esterno.

Quante persone abbiamo perso di vista nella nostra vita, quante ci hanno sfiorati senza sapere nulla di loro, quante cose non sappiamo di chi per qualche tempo ci è stato vicino. Inutile aggiungere che Sasha avrei voluto conoscerla anch’io.

domenica 29 gennaio 2012

Una nuova casa, una nuova vita?

Una volta Immaginaria viveva da un'altra parte. Ora che Splinder chiude si sposta qui, almeno non per non perdere un pezzo di esperienze che per un certo periodo sono state importanti per me.
Chissà se questo trasloco ridarà un po' di vita a questo blog.