Moebius

Moebius

sabato 9 maggio 2015

Di pecore elettriche e unicorni

Giovedì, per la prima volta in vita mia, ho visto Blade Runner al cinema (in versione final cut).


Per un blog dedicato, almeno nelle intenzioni iniziali, all'immaginario e per uno che all'inizio (ere geologiche fa, ormai) ha scelto un nickname ispirato a Philip Dick amare Blade Runner è quasi un atto dovuto, una cosa scontata e forse banale.


Ma può essere banale amare un film che a più di trent'anni dall'uscita ancora riesce a emozionare chi lo vede per la prima volta? Può essere scontato amare un film che richiede attenzione a ogni singola parola, a ogni frame, a ogni inquadratura, gioco di luci, movimento di macchina per coglierne il senso profondo?


Può essere banale amare un film che ci fa sentire uguali a quanto di più lontano, alieno e diverso dovrebbe esserci per noi umani, come un essere artificiale, il frutto dell'ingegneria?


No, ovviamente. Quanto mi piacciono le domande retoriche.


Quasi tutti quelli che conosco hanno visto e amano quel film. Pochi hanno invece letto Do Androids Dream of Electric Sheep?. Il libro e il film sono vicini e lontani allo stesso tempo. Il cuore della storia e le emozioni che suscitano sono pienamente dickiane, l'effetto di meraviglia visiva è invece di Syd Mead e di Ridley Scott ma interpreta e rafforza il racconto di Dick.


Queste distanze variabili fra libro e film vanno lette in base a quanto c'è di Dick nel film di Scott (gli androidi indistinguibili dagli umani; un mondo distopico sommerso dal caos - la palta; gli animali elettrici - anche se questo tema è molto più sfumato nel film; la cupezza del racconto noir; le grandi corporation che dominano il mondo, il senso di soffocamento delle emozioni più profonde) e quanto invece è stato lasciato fuori (la sottotrama religiosa legata al culto del nuovo messia Mercier - fanatismo, spettacolarizzazione e mercificazione della religione e del dolore, impoverimento emotivo; gli animali veri - come simbolo e rappresentazione dei desideri repressi e dei sensi di colpa di una società che ha visto la quasi totale estinzione della vita animale - Vs gli animali elettrici - surrogati che solo in parte compensano la scarsità di empatia presente nel mondo; la polizia parallela composta da androidi).


E poi c'è l'elemento più importante di tutti, che fa sì che libro e film siano comunque un unico universo, il tema portante della fantascienza dickiana (e di un bel pezzo della filosofia occidentale): l'inconoscibilità della nostra natura e di quella del reale. Cosa è umano, cosa non lo è? Siamo umani perché lo dice la biologia o perché abbiamo aspirazioni, ci innamoriamo, sogniamo pecore elettriche (o unicorni)?


Quello che percepiamo con i nostri sensi è davvero oggettivo? È davvero reale? Quello che sappiamo di noi stessi è davvero ciò che siamo?


E se scoprissimo di essere altro da noi, smetteremmo di essere noi? Avremmo una vita meno degna di essere vissuta? O continueremmo invece a chiedere più vita come Roy Batty?


Quello che so è che proseguiremo sempre a interrogarci su chi e cosa siamo, su come dare sostanza ai nostri sogni, come inseguirli e renderli reali, fossero anche unicorni.


La realtà è quella cosa che quando smetti di crederci non sparisce, è quello che dice Dick in risposta alla domanda di uno studente in uno dei suoi romanzi più difficili e stranianti, Valis. E’ la citazione di PKD che preferisco, perché penso dia il senso della sua opera molto più di altre (tipo l’Io sono vivo, voi siete morti di Ubik).


Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (perché per me il titolo del libro sarà sempre la versione originale, non sarà mai Blade Runner o Il cacciatore di androidi) è, per questi motivi il libro che amo di più di Dick, più di Ubik, più di Le tre stimmate di Palmer Eldritch, più di Un oscuro scrutare che pure adoro. Lo amo più del film (che è comunque uno dei miei film preferiti) perché lo considero più complesso e più denso di significati e perché lascia allo spettatore più domande che risposte, mentre in Blade Runner (a forza di director’s cut) la risposta alla domanda più grande di tutte sta lì, in bella vista.


[Da qui in avanti c’è qualche spoiler sul libro, per chi volesse leggerlo; personalmente penso sia ridicolo parlare di spoiler per un libro di quasi 50 anni fa ma ormai c’è questa sacra paura dell’anticipazione…]


Il Deckard di Dick e quello di Ridley Scott. L’investigatore del romanzo dickiano è il classico protagonista perdente dei romanzi di Dick, non è affascinante (non ha la smorfia di Harrison Ford), è sposato con un’arpia insensibile dedita al culto di Mercier, ha come massima aspirazione potersi comprare una pecora vera, massimo status symbol, invece di quella elettrica.
Il Deckard del film è il protagonista di un film noir, non sappiamo niente di lui a parte che caccia androidi. Deve svolgere un lavoro, seppur controvoglia, e si troverà invischiato in un’altra storia.


Il romanticismo. Il film si basa molto, oltre che che sul contrasto umano/artificale, sulla storia d’amore fra Rick e Rachel, e sul percorso che compiono verso la consepevolezza della propria natura. Nel romanzo di Dick è tutto molto più sporco e incerto; Rachel non è quest’essere così amabile ed etereo e la storia non andrà per niente come nel film; piuttosto sarà un incontrarsi di desideri e uno scontrarsi di personalità fino all’epilogo. E a rimetterci sarà una pecora.


Un diverso finale. Come dicevo, nel libro il finale è molto più aperto. Non ci sono elementi per pensare con certezza che Rick sia un androide (sì lo sospettiamo e lo sospetta anche lui in una parte fondamentale del libro, ma nessuno ce lo dice, non c’è un Gaff a distribuire origami). L’epicità dello scontro fra Rick e Roy è tutta del film (ed è naturalmente un suo gran merito), nel romanzo tutto si risolve in modo diverso, forse anche più sciatto e sicuramente meno epico.
La storia d’amore con Rachel, poi, non è proprio una storia d’amore. Nessun finale romantico.


Unicorni vs Pecore. Che sognare un unicorno sia molto più affascinante che desiderare una pecora da tenere in terrazzo è cosa ovvia. Il tema degli animali, elettrici e non, è però fondamentale in Dick (già dal titolo del romanzo). 
Il mondo in cui si muove Deckard è un mondo post-atomico, ormai impoverito, in cui rimangono solo pochi derelitti mentre chi può parte per le colonie spaziali (le colonie extra-mondo del film); le radiazioni hanno causato la quasi totale estinzione degli animali e una gran varietà di mutazioni e malattie negli esseri umani (altro tema importante del libro: si veda il personaggio che nel film diventa Sebastian). 
Gli animali diventano rappresentazione della propria ricchezza e posizione sociale; chi non può permettersene uno lo compra elettrico e spera che i vicini lo scambino per uno vero.
Il desiderio di un animale è quindi esemplificazione, nel romanzo, dei desideri e dei bisogni, anche banalmente consumistici, espressi da quell’animale sociale che è l’uomo.
L’unicorno che sogna Deckard nel film non rappresenta, ovviamente, il desiderio del protagonista di avere un unicorno in casa ma tutto ciò che lui non capisce della sua vita, a cominciare dai propri sogni.
Pecore e unicorni svolgono però una funzione simile dal punto di vista narrativo, sono un po’ un anello di congiunzione fra libro e film, rappresentando quel qualcosa che ci fa, tutti, più umani.




Ho messo in ordine un po’ di idee su quello che mi piace pensare come l'universo narrativo Blade Runner. Spero di aver messo dentro anche qualche spunto interessante per chi, se già non lo conosce, abbia voglia di avvicinarsi a Dick, leggendo anche altri suoi libri.


Se ne volete parlare, sono qua. Vi lascio con la versione originale del monologo finale di Roy.


domenica 29 marzo 2015

The Imitation Game

Vedere, e recensire, un film dopo che tutti quelli che lo volevano guardare lo hanno già visto e che giornali e blog ne hanno già scritto forse non aggiunge nulla.
Serve però a me, per registrare le impressioni, a caldo o a freddo a seconda dei casi, e per fare ordine fra le idee. Per far emergere le idee.

Quindi parliamo di The Imitation Game,  visto venerdì sera insieme a un'altra decina di spettatori in una saletta piccola e in qualche modo intima, in buona compagnia per fortuna.
Passo indietro. Il motivo per il quale finora non lo avevo visto era un sincero pregiudizio sul modo in cui era stata resa la storia di Alan Turing. Temevo una riduzione a macchietta di un personaggio dalla storia drammatica di cui avevo avuto modo di leggere negli anni (off topic ma non troppo: un buon libro per comprendere il contributo di Turing alla moderna informatica e agli studi di intelligenza artificiale è Macchine come noi, Laterza). Poi naturalmente era anche mancata l'occasione giusta.

Venerdì sera.
- Andiamo al cinema?
- Vedo cosa danno. Ah, c'è Whiplash,  lo vorrei vedere. Noi e la Giulia, dovrebbe essere carino. Ah no, è alle 20.50. Guarda fanno ancora The Imitation Game.
- Ok, dai. Poi se non mi piace te lo rinfaccerò per tutta la vita.

Venerdì notte, dopo il film.
- Ti è piaciuto?
- Sì molto. Hai scelto bene.
- Fiuuuuuu. 

E a me? 

Giudizio più che positivo. Film di impostazione classica, che si concentra su un periodo ben circoscritto della vita di Turing, e probabilmente il più noto al grande pubblico, quello di Bletchley Park alla caccia del codice per decrittare la macchina Enigma. La biografia di un geniale matematico diventa quindi la storia eroica di un gruppo male assortito che impara a lavorare insieme e a rispettarsi per dare un contributo decisivo alla vittoria della guerra contro il nazifascismo. 

Ci sono il dramma esistenziale di Alan, una forte figura femminile, un quasi amore, la repressione dell'omosessualità, colpi di scena e un po' di spionaggio spiccio. Aggiungete un attore in ascesa come Benedict Cumberbatch, una giovane diva come Keira Knigthley, miscelate bene e otterrete quasi due ore di ottimo intrattenimento,  buoni sentimenti, commozione e grandi ideali. 

 Una critica? La storia di Turing è ipersemplificata (e probabilmente nemmeno troppo precisa); alle sue teorie si fa soltanto qualche cenno e non è detto che lo spettatore esca dal cinema avendo compreso l'importanza del gioco dell'imitazione del titolo (cioè il Test di Turing) nella storia della scienza e del pensiero contemporaneo. Inoltre Turing è rappresentato come una sorta di freak,  evidentemente con una qualche forma di autismo (si dice che potesse soffrire della sindrome di Asperger ma non mi risulta sia del tutto confermato).

Però non sarebbe corretto giudicare un film per quello che avremmo voluto fosse. Giustamente è stata fatta una scelta, e questa ha portato molte più persone al cinema e molte più persone a interessarsi alla storia di Turing.

The Imitation Game emoziona, avvicina lo spettatore alla Storia, stimola riflessioni e voglia di approfondire. E intrattiene. 
 Se ancora c'è qualcuno che non lo ha visto, beh, è consigliato col mio bollino.

PS. Qualche articolo utile:

Un computer ha superato il test di Turing (notizia poi in parte ridimensionata)


giovedì 19 marzo 2015

Walking on the moon

Ieri erano 50 anni da quando l'astronauta russo Aleksej Archipovič Leonov ha compiuto la prima passeggiata spaziale della storia
(foto da: Il Post

lunedì 9 marzo 2015

Una ragazza divertente

All'uscita avevo un po' snobbato l'ultimo libro di Nick Hornby, Funny Girl, fondamentalmente per due motivi.
Il primo è che sono passati molti anni da quando ho letto qualcosa di suo (forse Un ragazzo oppure più probabilmente Come diventare buoni).
Il secondo, collegato al primo, è che nella mia testa (in quel particolare scoparto della mia testa in cui archivio e classifico i libri che leggo, gli autori che mi piacciono, le cose che metto nella mia personalissima lista dei desideri) lo scrittore inglese da un certo punto in poi mi è sembrato appartenere a un periodo ormai passato (gli anni '90, primi anni duemila) in cui io stesso ero diverso e avevo gusti in parte differenti anche in materia di letture.

Per me Nick Hornby è sempre stato quello di Febbre a 90° e Alta Fedeltà, libri in qualche modo molto caratterizzanti del momento in cui sono stato scritti e di un modo di sentire che sembra lontano anni luce. Un po' la stessa cosa la sento per Jonathan Coe, un altro che a cavallo fra '90 e anni zero amavo molto e consigliavo a tutti e che oggi forse non amerei allo stesso modo.

E' stato quindi quasi per caso che, cercando qualcosa di leggero e divertente, l'ebook dell'ultimo Hornby è finito sul mio ereader, rivelandosi in linea con le aspettative, nel bene e nel male.

Brevemente, il romanzo (ambientato a metà anni '60) racconta la storia di Barbara, bionda ventenne e col fisico da starlette televisiva che da una sperduta cittadina nel nord dell'Inghilterra di trasferisce a Londra per cercare di coronare il sogno di diventare un'attrice comica come il suo idolo Lucille Ball.
Manco a dirlo, dopo un breve periodo di ambientamento nella metropoli Barbara riesce a dimostrare il suo talento comico e a diventare la protagonista di una sit-com della BBC.

Da lì in avanti la vicenda scorre in modo lineare, senza clamorosi colpi di scena; Barbara si muove nella swingin' London, in una parabola che da provinciale imbranata la porta a frequentare feste e luoghi alla moda, dribblando spasimanti e godendosi la fama di donna in ascesa della commedia tv inglese.

Il romanzo, scritto con grazia e umorismo, racconta soprattutto un'epoca, gli anni '60, in un Inghilterra in cui si passa da una cultura tradizionale a un'altra che sarà segnata per sempre dai Beatles e dai Rolling Stones, dai rotocalchi e da trasformazioni sociali profonde che porteranno alla crisi dei laburisti e, qualche anno dopo, all'arrivo della Tatcher.

Con qualche leggero colpo di pennello, Nick Hornby mostra i cambiamenti in corso nella società inglese e racconta come fosse una tipica storia di successo e scalata sociale le vicende di Barbara e degli altri personaggi che le ruotano intorno (Clive, il vanesio attore co-protagonista della sua sit-com; Dennis, il produttore; i due sceneggiatori Tony e Bill).

I momenti migliori del romanzo sono probabilmente quelli in cui compaiono i due sceneggiatori, uno apertamente gay con ambizioni artistiche, l'altro probabilmente gay ma dalla sessualità incerta (anche e soprattutto a se stesso); sono i due personaggi che fanno da snodo alla vicenda in quanto autori di una sit-com che deve essere allo stesso tempo innovativa e rispecchiare i cambiamenti sociali in atto e in quanto personaggi più complessi, intorno ai quali far girare le tematiche in qualche modo più impegnate del romanzo (cultura alta vs cultura bassa; l'omosessualità, all'epoca ancora un reato in Inghilterra; i rapporti fra i sessi che si fanno sempre più paritari e, sessualmente, liberi, almeno in certi settori; il matrimonio e una nuova idea di famiglia).

Il libro strapperà molti sorrisi al lettore e sono sicuro piacerà a molti; Funny Girl manca però di pathos, non c'è mai un momento drammatico o una svolta narrativa inaspettata che riattizzi l'attenzione del lettore. Sembra davvero di vedere una vecchia serie tv, dove tutto è ovattato, piacevole e poco impegnativo, con una vena malinconica che è la cifra tipica di Hornby ma nella quale è davvero difficile riconoscersi (al contrario, ad esempio, di quanto potrebbe accadere al vecchio lettore di Alta fedeltà).

giovedì 19 febbraio 2015

Sei nei guai? Chiama Saul!

I fan di Breaking Bad hanno aspettato l'esordio di Better Call Saul con un'attesa paragonabile a quella di un tifoso in attesa che riparta il campionato o di un innamorato al primo appuntamento.



Lo spin-off di una delle serie più belle, premiate e acclamate degli ultimi anni (la più bella? Probabile) già al suo annuncio ha provocato due tipi di reazione: amore incondizionato (Vince Gilligan è un genio, anche se non dovesse essere come Breaking Bad va comunque vista, fosse anche solo per riconoscenza!) o sano scetticismo (BB è il canone di riferimento per una serie fatta bene, comunque inarrivabile, perché cercare di sfruttare ancora il suo successo con un spin-off che non potrà mai essere come l'originale?).

Posizioni entrambe accettabili. Penso anche io che BB sia irraggiungibile ma ho comunque atteso con ansia BCS [nota per il lettore: l'ansia per una serie Tv non è vera ansia è solo un modo di dire], con la curiosità di vedere cosa poteva uscire fuori dalla stessa fucina che ha partorito le vicende di Walter White e Jesse Pinkman.

AMC ha trasmesso, negli USA, il terzo episodio e mi sento di dire che Better Call Saul è molto molto buona. Altri hanno già scritto che è più di uno spin-off e che potrebbe vivere di vita propria e mi sento di condividere a pieno questa opinione.

Vero che ha tutti gli elementi di uno spin-off, a cominciare ovviamente dal protagonista, ma la vicenda è del tutto autonoma (non c'è Saul che cambia città e magicamente prosegue i suoi affari da un'altra parte, come una Denise che lascia casa Robinson e va a vivere da sola) e, fin dai primi due episodi, acquista uno spessore drammatico che ti fa (quasi) dimenticare che si tratta dell'avvocato di Heisenberg.

La storia, ambientata nel 2002, racconta di Saul Goodman, che ancora non sia chiama Saul Goodman ma James McGill, che si arrabatta a fare l'avvocato ad Albuquerque accettando piccoli casi d'ufficio per sbarcare il lunario alla ricerca della svolta, nella forma di un caso importante che porti soldi e fama. Jimmy McGill non è ancora l'avvocato sfrontato e spaccone degli spot in tv, con le mani in pasta dappertutto ma un poveraccio che ha l'ufficio nel retro di un salone di bellezza asiatico.

E' un perdente che ha vissuto di espedienti, che ha perso le grandi occasioni e che dovrà scegliere se attraversare la linea e diventare qualcun altro, se seguire la propria coscienza o venire a patti col diavolo.



Fin dall'inizio, e vedremo più avanti, è chiaro che gli autori fanno muovere il personaggio sul filo: noi sappiamo chi diventerà ma come? E' un personaggio che ha una sua etica ma è in qualche modo sempre un mediocre disposto a vivere in un area grigia dove si incontreranno il personaggio Saul Goodman e l'uomo James McGill.

Per tante cose si è ancora nell'universo di Breaking Bad; ci sono il New Mexico e il deserto; c'è la regia che alterna grandi panoramiche a inquadrature laterali che mettono in evidenza piccoli particolari; c'è il montaggio sincopato di alcune scene di BB; e c'è una scrittura di qualità superiore a quasi tutto quello che passa in tv.


Il personaggio interpretato da Bob Odenkirk acquista molta più profondità, non è una macchietta come tratti sembrava in BB e lo stesso Odenkirk sembra salito di livello come capacità recitative, o forse semplicemente nella serie madre veniva oscurato dalla bravura di Bryan Cranston.

Serie da vedere (tanto la prima stagione saranno solo 10 episodi), cercando di sforzarsi di vederla come qualcosa di separato da BB e comunque differente (nonostante la presenza di qualche vecchia conoscenza...). Magari più avanti le due serie si riuniranno in qualche modo (è pur sempre uno spin-off, no?) ma sono sicuro che gli autori sapranno farlo nel modo giusto.

E ricordate... in legal trouble?... Better Call Saul! [se habla espanol]


mercoledì 18 febbraio 2015

Non di sole piume vive l'uomo (e il cinema)

Andiamo subito diretti. Birdman (o l'imprevedibile virtù dell'ignoranza) è, a modesto e contestabilissimo avviso di chi scrive, un gran bel film.

Ora vediamo perché.

Due grandissimi attori, entrambi potenzialmente da Oscar
La trama la trovate un po' ovunque in giro (vi consiglio magari la guida del Post senza troppi spoiler) così come recensioni. In estrema sintesi è la storia di Riggan Thomson (Micheal Keaton, bravissimo), un attore famoso  per aver interpretato in tre film il supereroe Birdman, arrivato a fine carriera senza soldi e senza riconoscimenti e che cerca di ricostruirsi un'immagine mettendo in scena (autore, regista e attore protagonista) una pièce tratta da Di cosa parliamo quando parliamo d'amore di Raymond Carver. Qui si intrecciano varie storie legate agli altri personaggi: la figlia ex tossicodipendente (Emma Stone), la ex moglie e l'attuale compagna (co-protoganista femminile dello spettacolo); l'altra attrice femminile (Naomi Watts) e l'esuberante e talentuoso fidanzato, ingaggiato all'toultimo momento come coprotagonista (Edward Norton, torna a livelli altissimi come non capitava non so più da quanti anni dopo tanti film e parti di poco conto).

Quindi è la storia di una messa in scena teatrale dalle prove fino alla prima. E basta?

Beh, fondamentalmente sì ma non solo. Per districarci passiamo a un aspetto centrale del film di Inarritu: la resa filmica. La storia non può essere svincolata dalla regia e dal montaggio; le scelte di Inarritu fanno parte della narrazione stessa perché il film si basa molto sul suo impatto estetico più che sulla storia.

E' un lungo, lunghissimo piano sequenza (ottenuto con qualche trucco cinematografico di notevole fattura tecnica). La camera si muove di continuo dietro, davanti, di fianco a Micheal Keaton e agli altri attori ma non solo; l'effetto piano sequenza prosegue in strada, in cielo, nelle transizioni da giorno a notte.

Forse la scena più memorabile del film
La maggior parte del film si svolge in interni, fra i camerini, le quinte e il palco del teatro dove sarà messo in scena lo spettacolo; l'azione, apparentemente assente nella vicenda (è un film molto parlato, in cui vengono messe in scena delle relazioni), sta tutta nella camera in continuo movimento.

Torniamo alla storia. Altro personaggio del film è Birdman stesso, che viene rappresentato come l'alter ego di Riggan; tanto Riggan vuole ricostruirsi un'immagine basata sul prestigio e sul riconoscimento come attore tanto Birdman spinge per farlo tornare al cinema commerciale dei grandi incassi e della popolarità (una delle battute più efficaci, pronunciate da Edward Norton, l'attore di teatro, recita: La popolarità è la cugina zoccola del prestigio).

Anche Emma Stone è belliss... ops, bravissima
Il film è quindi giocato sul dualismo interno a Riggan e ai suoi deliri di onnipotenza (lui, in fondo è Birdman! Può spostare gli oggetti e può volare se lo vuole!) e sull'oscillazione fra realismo (il rapporto con la figlia; le idiosincrasie del personaggio di Ed Norton e la sua incapacità di essere vero anche nella vita e non soltanto sul palcoscenico) e fantastico (Riggan può davvero volare o è un parto della sua mente?).

Elementi realistici e fantastici alla fine sembrano riunirsi ma uscendo dal cinema non si potrà fare a meno di chiedersi se, come e quando. Ma il film lascia fondamentalmente irrisolte tutte le domande, sia quelle meta-cinematografiche (non mi viene in mente un'espressione migliore per quello che intendo) sia quelle proprie interne alla storia e forse questo potrà essere ciò che ad alcuni farà storcere la bocca.

Personalmente amo questo tipo di storie, frutto di una sensibilità post-moderna, in cui le cose non sono tutte lineari e chiare e richiedono di soffermarsi più sul contesto e sulle relazioni. Più che raccontare una storia, il film stesso è una storia rendendo difficile separare, nel giudizio, il contenuto dalla forma.