Moebius

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martedì 28 febbraio 2012

Ancora sull'androide PKD, che stavolta perde la testa

Qualche anno fa apparve una notizia curiosa, che segnalai su Immaginaria: l'androide Philip K. Dick era stato rubato!

Si trattava di un automa (androide mi sembra un termine troppo ambizioso) con le sembianze di PKD in grado di "conversare" con i suoi interlocutori (chissà se alla domanda che cos'è la realtà avrebbe risposto: è quella cosa che quando smetti di crederci non sparisce) protagonista di una misteriosa sparizione.

Uno dei ricercatori coinvolti nella vicenda ci ha scritto su un romanzo, che sarà pubblicato da Fanucci nei prossimi giorni (qui maggiori dettagli).

C'era una volta il cinema muto

Se qualcuno non se ne fosse accorto, la scorsa notte l'Academy ha assegnato gli Oscar e il film trionfatore dell'edizione 2012 è stato The Artist, cosa che mi fa piacere perché si tratta di una pellicola che ho apprezzato molto. Non avendo visto tutti gli altri film in gara (anzi quest'anno ne ho visti pochi, quasi nessuno) non posso onestamente dire se sia stata la scelta più azzeccata ma alla fine poco importa perché tanto le logiche degli Academy Awards possono piacere o meno ma non sempre seguono criteri puramente artistici (cinematografici, direi).

Queste logiche, però, intercettano il gusto del momento (facendo la media fra l'effettivo valore di un film, comunque difficilmente oggettivabile, il successo di critica e pubblico, la spinta delle grandi case di produzione).
E allora che momento è questo, per il cinema e più in generale per la cultura contemporanea, se il "miglior" film dell'anno è un film muto, in bianco e nero, che descrive il passaggio dal muto, appunto, al sonoro (tema assolutamente non nuovo per il cinema), che ha come protagonista un divo sconfitto che viene dimenticato e che racconta una storiella d'amore?

C'è chi ha sostenuto che il successo di questo film sia legato soprattutto alla nostalgia per i tempi andati, ma non sono molto d'accordo*. Altrove, c'è chi sostiene che si tratti soprattutto di un'opera di maniera, ben realizzata, molto curata e molto laccata ma che alla fine (a parte l'espediente di fare un film quasi del tutto muto come li facevano ai tempi del muto) non presenta niente di veramente originale, oltre che non confrontarsi davvero con la realtà.

Ecco, pur pensando che The Artist sia un buon film bisogna riconoscere che non si tratta di un capolavoro e che forse, anzi quasi sicuramente, non farà la storia del cinema.
Per questo blog, che della categoria dell'immaginario fa il proprio punto di riferimento, forse la pecca maggiore di The Artist è che non fa immaginario. E se gli Oscar, come detto, rappresentano il momento del cinema, allora temo che sia il cinema, almeno quello "americano" (in senso lato), a non produrre immaginario, o almeno a soffrire di una sorta di asfissia di idee.

Però forse c'è vita là fuori.

*Aggiornamento del 28/2: A questo proposito ieri sera mi era sfuggita un'altra considerazione, e cioè che la storia del divo che cade in disgrazia ma che alla fine riesce in qualche modo a ricostruirsi una carriera ha invece un valore contrario a quello che diceva Piccolo in quell'articolo da me commentato: che per non soccombere è necessario rinnovarsi e reinventarsi. Questo punto, anche se può sembrare in contraddizione con le conclusioni del post, è forse proprio ciò che ne ha decretato il successo, più che l'apparente effetto c'era una volta.

sabato 25 febbraio 2012

Brain training, life training

Ho sempre, sinceramente, pensato che per produrre un'opera originale (e uso la parola opera in senso lato, come una produzione dell'ingegno e della creatività) spesso non basti il talento puro. Non è possibile scrivere Infinite Jest (visto che siamo nella settimana di #DFW50), inventare la lampadina, scoprire la penicillina o creare il web solo con la pura ispirazione ma è necessaria una grande dedizione alla propria vocazione (quella in qualche modo serve sempre).

 Gli studi dello psicologo cognitivo Anthony McCaffrey, di cui parla oggi La Repubblica, vanno proprio in questa direzione. Al di là del valore scientifico della ricerca (che non sono assolutamente in grado di giudicare), mi affascina moltissimo l'idea che la creatività non sia legata soltanto al genio individuale. O meglio, che il genio da solo non sia sufficiente per ottenere successi e riconoscimenti.

Bisogna essere degli stakanovisti, fare ogni giorno i propri "esercizi", allenare il cervello a costruire nuove connessioni, a rielaborare la realtà secondo schemi innovativi e mai visti prima. Quando non si fa ciò e si inizia a battere strade già conosciute ci si impoverisce inevitabilmente, le nostre idee perdono in originalità, le aspirazioni evaporano e tutto diventa routine e prevedibilità.
La creatività è faticosa. Essere creativi richiede impegno. Riempire le proprie vite di novità e far sì che da queste nasca qualcosa di bello e importante, per sé e per gli altri, è una cosa che richiede, quindi, anche un grande lavoro su se stessi per imparare ad aprirsi alla realtà, a leggerla e a riconoscere quegli spiragli di luce in cui infilarsi per riemergerne con nuove idee e passioni. 


martedì 21 febbraio 2012

L'era dello spettacolo

"Anno del Pannolone per Adulti Depend: InterLace TelEntertainment, Tp da 932/1864 Risc power-Tp con o senza consolle, Pinkj, disseminazione Dss post-Primestar, menu e icone,fax InterNet senza pixel, tri- e quad-modem con baud regolabile, griglie per la disseminazione post-Web, schermi a definizioni così alta che ti sembra di essere lì, conferenze videofoniche dai costi contenuti, Cd-Rom con Froxx interno, alta moda elettronica, consolle multiuso, nanoprocessori Yushityu in ceramica, cromatografia al laser, mediacard virtuali, impulsi a fibre ottiche, codificazione digitale applicazioni killer; nevralgia carpale, emicrania fosfenica, iperadiposi dei glutei, stress lombare.
[...] Dire che tutto questo è un male è come dire che il traffico è un male, o che le sovrattasse sulla salute o i rischi della fusione anulare sono un male: solo i freak luddisti mangiacereali direbbero che è male una cosa senza la quale non si riesce a vivere.
Ma così tanto di questo spettacolo privato fatto di schermi personalizzati e guardato dietro le tende tirate nella sognante familiarità della propria casa. Un mondo galleggiante di non spazio di visioni private.
Da qui la passione del nuovo millennio di assistere alle cose che succedono in dretta. [...] Ecco gli Ingorghi dei Curiosi davanti agli incidenti stradali, alle esplosioni per fughe di gas, rapine, scippi, l'occasione veicolo di scarico dell'Empire con un vettore incompleto che si va a schiantare nei sobborghi della North Shore e rade al suolo intere comunità e la gente lascia aperte le porte di casa nella fretta di uscire e intrufolarsi e fermarsi a guardare il mucchio di rifiuti precipitato che attira una folla sobria e attenta, che si dispone in cerchio attorno al punto di impatto e confronta con serietà le osservazioni mentali su quello che tutti loro stanno vedendo. Da qui l'apoteosi e la gerarchia sociale decisamente complicata dei musicisti di strada a Boston, i migliori dei quali vanno al lavoro con macchine tedesche.
[...] Il cameratismo e la comunione anonima di far parte di una folla di spettatori, una massa di occhi nessuno dei quali è a casa propria, tutti fuori nel mondo e tutti puntati nella stessa direzione. [...] Qualsiasi cosa attira la gente. Sono ricomparsi i venditori ambulanti. I veterani senza casa e le figure tutte storte sulle sedie a rotelle con i cartelli scritti a mano che spiegano la loro condizione.  Giocolieri, freak, maghi, mimi, predicatori carismatici con microfoni portatili. [...] Cultisti con tuniche color zafferano con percussioni e volantini stampati a laser. Perfino gli euromendicanti europei vecchio stile, gente con le sopracciglia nere e i pantaloni a righe, muti e fermi. Perfino i candidati locali, gli attivisti, i consiglieri e gli aiutanti di base sono tornati in pieno con tutta la loro organizzazione a fare comizi in pubblico - la piattaforma con le bandiere, i coperchi dei cassonetti dell'immondizia, i tetti degli autoveicoli, i tendoni, tutto ciò che sia sopra le teste della gente, qualsiasi cosa che si elevi a catturare l'attenzione del pubblico: la gente si arrampica e declama e attira spettatori."

[David Foster Wallace - Infinite Jest]

#DFW50

Domani David Foster Wallace compie 50 anni. Sì, compie 50 anni perché per chiunque abbia avuto il piacere incontrare i suoi libri DFW è ancora vivo. Il suo suicido è solo un infinite jest, uno scherzo.

Mi ritengo enormemente fortunato per il solo fatto di aver letto un libro come Infinite Jest, semplicemente una delle opere più grandi, commoventi, coinvolgenti, brillanti, ricche, intellettualmente stimolanti, fantasiose, geniali della letteratura contemporanea. Un libro che non lascia chi lo legge uguale a se stesso ma che produce delle trasformazioni, inevitabilmente.

Domani David sarà ricordato in vari modi, chi vorrà scriverà di lui su Twitter usando l'hashtag #DFW50; l'Archivio DFW ha organizzato la lettura collettiva de Il re pallido, l'ultimo volume pubblicato in Italia (di cui ho parlato qui).

domenica 19 febbraio 2012

Vita reale

- Mi arrendo, qual è la vita reale dell'uomo?
- Non esiste. Esiste solo il bisogno di arrivare a una vita reale. Tutto quello che non è reale è la vita reale dell'uomo. 


[Philip Roth, Operazione Shylock]

sabato 18 febbraio 2012

26 lettere, 26 film

L'alfabeto in 26 film.  Indovinarli tutti è una cosa davvero da cinefili (una buona parte non mi sono chiari, lo ammetto).


ABCinema from Evan Seitz on Vimeo.

venerdì 17 febbraio 2012

La farfallina 2.0

Questa settimana accade un fenomeno curioso: l'Italia si ferma per guardare #Sanremo, e per dire che #Sanremo fa schifo.

Premesso che faccio parte di quella fetta di italiani che il Festival non lo guarda perché proprio non gli interessa (e chi lo guarda dirà che sono snob: no, non mi piace, lo rifiuto, preferisco guardare Milan - Arsenal e leggere Operazione Shylock di Roth, io non guardo nemmeno i varietà alla Fiorello figurarsi il Festival della Canzone Italiana), purtroppo so tutto di esso o comunque è come se ne sapessi qualcosa. Alzi la mano chi non è stato coinvolto in qualche discussione su uno di questi argomenti (escludo deliberatamente le canzoni, dubito che le abbia ascoltate anche chi ha visto lo show):
  • la salute della modella ceca Ivana Mrazova;
  • le battute di Luca e Paolo;
  • Gianni Morandi
  • il sermone di Celentano (l'inutile diatriba sul perché, dopo che è stato pagato centinaia-di-migliaia di euro per fare quello che fa sempre in tv, abbia, stranamente, deciso di fare il Celentano);
  • le vallette di riserva Rodriguez e Canalis;
  • Loredana Berté che sembra Richard Benson (per chi lo conosce);
  • i Soliti Idioti;
  • le mutande di Belen e la sua farfallina (il tatuaggio, che avete capito).
Potrei sostenere una qualche conversazione praticamente su ognuno di questi punti (soprattutto sull'ultimo) pur senza aver visto non più di 5 minuti in tutto  di Festival (lo ammetto, subito dopo l'apparizione della farfallina, che non sono riuscito a vedere in diretta). Oggi è impossibile sfuggirne, molto più di quanto accadeva fino a qualche anno fa quando Sanremo vi inseguiva al lavoro, a scuola, al bar ma in qualche modo arrivava il momento in cui uno poteva spegnere tutto e pensare ai fatti suoi.

E sapete perché? Non perché, o non solo, tutti i giornali, i telegiornali e i principali siti di informazione non fanno altro che parlarne.

No, soprattutto perché Sanremo ve lo ritrovate sulle vostre pagine Facebook e Twitter, nei blog dei vostri amici, nei loro Tumblr, ecc.. C'è chi ne scrive in diretta per raccontare e commentare in tempo reale tutto quello che sta passando sullo schermo (quando si parla di citizen journalism...), non sia mai che qualche disgraziato ne rimanga all'oscuro. C'è chi non può esimersi dal far sapere agli altri che lo sta guardando ma solo per vedere quanto sia trash mentre altri devono per forza informarvi che non ne hanno seguito manco un minuto, che non gli interessa, che loro la farfallina di Belen non l'hanno vista (ma gli sarebbe piaciuto).
C'è perfino chi usa gli hashtag #Sanremo e #Belen come metro di paragone per tutte le altre notizie (però finisce comunque nello stesso calderone) e che ci sono cose ben più importanti. E quelli che devono per forza usare Twitter per fare battute su Sanremo (così, poi, se qualche comico ne farà di simili potrà dire che gliele ha rubate).

Non se ne esce, non se ne può uscire: è il Web 2.0 bellezza, quello dei contenuti prodotti dal basso, di questo stream infinito in cui tutti commentano e dicono la loro, della libertà e delle grandi potenzialità di espressione offerte dai social media.

Grandi potenzialità di espressione. 

Libertà.

...

Ma sì dai, in fondo ne ho appena parlato anche io.

martedì 14 febbraio 2012

Un film è un film è un film è un film

In questa stagione cinematografica non ho visto moltissimi film, né al cinema né in home video, e non ho trovato niente che mi abbia davvero entusiasmato e che sicuramente ricorderò nei prossimi anni, tranne forse Drive (ovviamente per mia mancanza, di bei film ne escono sempre ma ogni tanto me ne perdo qualcuno). Fra i film che ho visto, però, uno che ho apprezzato davvero tanto è The Artist, pluricandidato all’Oscar (vedremo se porterà a casa qualche statuetta).
Non la faccio tanto lunga sul perché mi sia piaciuto: ne ho apprezzato sia il soggetto e la sceneggiatura (amo sempre i film che parlano di cinema) che gli aspetti più tecnici e cinematografici. Gli attori, poi, li ho trovati bravissimi.
Accenno qui a questo, secondo me, bel film per riprendere l’articolo di Francesco Piccolo uscito domenica sul Corriere, La sinistra è come mia zia. Partendo proprio dall’analisi di The Artist, Piccolo sostiene che questa pellicola riscuota successo in alcuni settori intellettuali perché affine allo spirito di cerca sinistra definita sempre “reazionaria”, “passatista”, che non guarda al futuro, ecc.
In The Artist, film muto che racconta la storia di un divo, appunto, del muto che cade in disgrazia col sonoro (tema non nuovo al cinema, si veda almeno Viale del tramonto), secondo Piccolo lo spettatore si identifica empaticamente col protagonista (che, per lo scrittore, sarebbe un vecchio relitto destinato a sparire insieme al suo mondo) proprio per una sorta di effetto “quanto era bello il piccolo mondo antico” a cui, per Piccolo, quelli di sinistra sarebbero tutti legati. A esempio di ciò, Piccolo cita anche lo scrittore Jonathan Franzen (prima o poi leggerò “Le correzioni”, che mi aspetta sullo scaffale da qualche anno) che ha sostenuto che gli ebook fanno male alla cultura e alla letteratura.
Nella sostanza, mia zia ottantenne, Franzen, il ceto medio riflessivo e gli intellettuali che lo rappresentano passano tutta la vita a difendere il cibo come si faceva una volta, le piccole librerie di quartiere con l’odore dei vecchi libri, il telefono fisso. Pierluigi Bersani e Susanna Camusso difendono l’articolo 18, altri le vecchie lire, Michel Platini e Diego Maradona, gli sceneggiati in bianco e nero, la commedia all’italiana, la bicicletta, il vedo non vedo dell’erotismo contro la sfacciataggine di oggi. C’è perfino chi rimpiange la Democrazia cristiana, era meglio Andreotti, e Cirino Pomicino non era così male.
Ora, dico io. Che ci sia gente che, in generale, rimpianga il passato è un dato di fatto. Non sopporto però quando si fanno delle generalizzazioni del tutto infondate. Essere di sinistra in questo paese non vuol dire una cosa sola ma, purtroppo o per fortuna a seconda dei punti di vista, sentirsi più vicini ad una certa sensibilità piuttosto che a un’altra (non mi va di stare a parlare di sinistra riformista e radicale, di borghesi radical chic e di “classe operaia”, non è questo il punto). Io rifuggo da queste classificazioni e pecca di presunzione chi prende a pretesto un film per stabilire che da una parte ci sono gli innovatori e i riformisti (la sinistra non “reazionaria”, in cui ovviamente Piccolo si inserisce) e dall’altra una massa di conservatori.
Concludo con alcune brevissime, personali, considerazioni:
1.       a me The Artist è piaciuto molto;
2.       nonostante abbia apprezzato il film, pensate un po’ che strano, sono più che favorevole agli e-book e ho comprato da poco un e-reader (Piccolo mi deve spiegare perché, secondo lui, tutti quelli di sinistra dovrebbero far propria l’opinione di Franzen);
3.       non vedo perché, se mi è piaciuto The Artist, come dice Piccolo dovrei, a priori, rimpiangere il passato e perché, sempre per definizione, dovrei essere uno strenuo sostenitore dell’art. 18 (che penso difenda dei diritti sacrosanti ma ritengo anche che cambiarlo non sia poi uno scandalo: qualsiasi riforma del mercato del lavoro è meglio di quello che c’è adesso, anche se qualcuno dovrà spiegarmi il nesso fra occupazione e art. 18 visto che per me non è così automatico);
4.       un film è un film: può piacere indipendentemente da quello che si pensa di altre cose; posso contemporaneamente apprezzare The Artist e leggere e-book, posso amare la bicicletta (altra mia grande passione oltre ai libri e al cinema, anche se Piccolo pensa a chi la usa “politicamente”: io ci faccio sport ma è lo stesso) ma essere allo stesso tempo attento a ciò che di nuovo accade nel mondo e alle trasformazioni sociali e culturali indotte da Internet e dal Web. Perché una cosa dovrebbe escluderne un’altra?
Se qualcuno ancora non è andato al cinema, vada a vedere ‘sto film. Se ne varrà o meno la pena dipenderà dal proprio gusto personale e non dall’essere o meno “reazionari”.

lunedì 13 febbraio 2012

Una sfortunata lettura

More about Una sfortunata mattina di mezza estate Io sono uno di quelli che un libro lo finisce comunque, anche quando non gli piace. Di solito seleziono bene le mie letture, è difficile che legga qualcosa che, per un verso o per l'altro, mi deluda del tutto. Ma ogni tanto capita. E ho sbagliato io a tornare sul luogo del delitto, visto che uno dei pochi libri che in vita mia ho mollato lo ha scritto sempre Will Self (Dorian, un Dorian Gray in chiave contemporanea).
Ho sbagliato lo so ma ci sono cascato.

Che poi questo Una sfortunata mattina di mezza estate si presenta bene, potrebbe anche essere un buon libro. Ambientazione fantastica e grottesca in uno sterminato continente-isola a forma di V non meglio specificato, popolato da numerose etnie e governato da complesse norme sociali, in cui uno dei comportamenti (reati) più gravi è fumare dove non consentito (praticamente ovunque). E proprio da un mozzicone di sigaretta gettato dalla finestra iniziano le disavventure del progatonista che si trova fagocitato nell'assurdo sistema giudiziario del continente e costretto a intraprendere una sorta di viaggio iniziatico per espiare le sue colpe. Un viaggio che significherà mettere in dubbio le proprie certezze e che dovrebbe rappresentare, per il lettore, una critica di alcuni aspetti della società e della cultura occidentali.

Messa così, la vicenda è ricca di spunti e Self qualche buona idea la tira fuori però... l'unico aggettivo che mi sento di usare è scialbo, nonostante sia scritto bene, con uno stile raffinato. Proprio per questo, però, risulta troppo di maniera e poco di sostanza.

Avesse la tensione drammatica, la profondità e la lucidità di un libro di Ballard (a cui Self viene paragonato: no comment), potrebbe essere straniante e allucinante come i libri del grande scrittore inglese. Ma non lo è, anche perché per tutto il romanzo c'è la sensazione di non riuscire a capire dove vada a parare la vicenda. E il finale non fa che confermare questa idea.
Fosse almeno divertente, venato di umorismo e satira, acquisterebbe maggiore consistenza.

Ma non è nemmeno questo.

Il re pallido (un non-romanzo)

More about Il re pallidoPrima avvertenza: se non avete mai letto nulla di DFW prima, allora Il re pallido non è il libro per voi.

Seconda avvertenza: se cercate il piacere di una lettura leggera e senza complicazioni, di una trama scorrevole dove tout se tient e che vi accompagni fino a un memorabile epilogo, allora Il re pallido non è il libro per voi.

Quando vi hanno detto che questo è un romanzo postumo e incompiuto, beh, non mentivano.
Ma c’è di più, questo forse non è nemmeno un romanzo e non nel senso che la letteratura post-moderna ha prodotto tanti libri che esulano dai canoni tradizionali che definiscono un’opera. Non è solo una questione da critica letteraria per fare una dotta dissertazione sulle infinite possibilità di interpretazione di un libro ecc. ecc.. Il re pallido non è un romanzo nel senso che non è un romanzo proprio perché incompiuto e manchevole di una struttura definita e unitaria (molti libri sono rimasti incompiuti ma questo forse più di altri).


Tutti questi inutili giri di parole (ovvio che la definizione di “romanzo incompiuto” implica che stiamo parlando di un romanzo ma non nel senso tradizionale, ecco) per dire che il volume che forse avete preso fra le mani è soprattutto il risultato dello sforzo dell’editor Michael Pietsch che si è immerso nel lavoro di David Foster Wallace e ne è riemerso con una enorme e disordinata mole di appunti, storie e personaggi.
Abbiamo quindi a che fare con un’idea, un’idea di romanzo. Forse è questa la definizione giusta ed è questo l’approccio corretto nei confronti di questo libro.

Libro, così come lo possiamo leggere noi adesso, composto dalle storie di quelli che, all’apparenza, dovrebbero essere oscuri e grigi funzionari dell’Agenzia delle Entrate americana, dove l’autore ha lavorato per un circa un anno a metà degli anni ’80 (e lo stesso DFW diventa a sua volta materia narrativa comparendo come personaggio fra gli altri e come “autore”).
L’incompiutezza del romanzo fa sì che non tutti i nessi fra i protagonisti siano chiari e non tutti i personaggi risultino pienamente sviluppati; molti frammenti che compongono il libro possono essere presi come realtà a se stanti, veri e propri racconti che, in alcuni casi, potrebbero vivere anche autonomamente. Altri invece... sono frammenti, appunto.

Tutto ruota intorno al senso dello scorrere del tempo, alla consapevolezza di sé e degli altri (in senso sia fisico che “spirituale”) e al percorso che ognuno compie per arrivare a essere quello che è, con un chiave di lettura fondamentale: la noia.
Le parti più riuscite sono proprio quelle in cui David indaga il “noioso” e il meccanismo che c’è dietro, in termini di percezione del tempo e di sé: la noia è ciò che si definisce per opposizione a quanto proviamo quando siamo in piena attività; è ciò che rimane quando siamo chiusi in situazioni che non permettono distrazioni e che non lasciano vie di fuga. C’è chi sa conviverci, chi la sperimenta in vari modi, chi la combatte, chi ne viene sconfitto. Tema affascinante e forse determinante in una cultura come la nostra, permeata, di fatto, dalla ricerca della distrazione continua (dominata dall’intrattenimento, cfr. Infinite Jest).


Quindi, da leggere? A me è piaciuto, al di fuori di un’idea convenzionale di letteratura. Il re pallido non può essere giudicato in maniera completa per quello che è e forse, anzi quasi sicuramente, nemmeno per quello che sarebbe dovuto essere. È comunque un’esperienza di lettura che non potrà lasciare indifferente chi avrà voglia di confrontarsi con un libro così particolare.

Il tempo è un bastardo

More about Il tempo è un bastardoUn vero piacere, la lettura di questo romanzo. Scorre magnificamente: non vedi l'ora di arrivare alla fine, di capire tutte le connessioni fra i personaggi, di assaporare ogni trovata e idea (un capitolo scritto come una presentazione Power Point: geniale!) dell'autrice, Jennifer Egan, e quando sei arrivato/a in fondo ti rimane quel sapore agrodolce in gola tipico di un libro che, allo stesso tempo, ti ha divertito e ti ha messo faccia a faccia con la realtà.

Il tempo è un bastardo è costruito come un collage di storie che si dipanano dagli anni '70 fino a un imprecisato 202- (assemblate senza un’apparente logica temporale, saltando avanti e indietro nel tempo) e che direttamente o indirettamente ruotano tutte intorno al produttore musicale Bennie e, soprattutto, all'affascinante Sasha (ora assistente di Bennie, ora giovane studentessa in una New York frenetica, ora ragazza perduta in giro per Napoli alla ricerca di se stessa, ora madre matura).

Ogni capitolo è focalizzato su un personaggio e fotografa un momento centrale legato a una qualche trasformazione occorsa nella sua vita e a ognuno di essi l’autrice da voce con un linguaggio e uno stile peculiari (al passato o al presente; ora in prima, ora in terza, ora, addirittura, in seconda).
Ogni episodio cela dietro di sé un abisso nero difficile da penetrare in cui finiscono i sogni infranti di giovani musicisti, artisti, studenti, sognatori, donne in carriera. Alcuni di essi in qualche modo riescono a riemergere e a costruirsi la propria vita, ad andare avanti e creare qualcosa di nuovo e dotato di significato. Altri invece si perdono, perché troppo deboli e fragili oppure perché, al contrario, troppo avidi di vita.

Come detto, Sasha è il filo conduttore di tutto il libro anche se compare effettivamente come protagonista soltanto nel primo capitolo; il romanzo prosegue in modo quasi circolare raccontando le vicende di una vasta galassia di personaggi che, direttamente o indirettamente, hanno avuto a che fare con lei o con qualcuno che lei ha conosciuto (in una sorta di riedizione della teoria dei sei gradi di separazione). Così, saltando da una storia all'altra, il lettore scopre ogni volta pezzetti di vita così vividi da sembrare reali e, in qualche modo, diventa egli stesso un personaggio del libro, l'unico a cui sia concesso il privilegio di venire a sapere che fine abbia fatto Sasha, proprio perché esterno.

Quante persone abbiamo perso di vista nella nostra vita, quante ci hanno sfiorati senza sapere nulla di loro, quante cose non sappiamo di chi per qualche tempo ci è stato vicino. Inutile aggiungere che Sasha avrei voluto conoscerla anch’io.