Moebius

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sabato 15 novembre 2014

Bello Interstellar (con qualche ma)

Di Interstellar si è parlato così tanto che è difficile aggiungere qualcosa di veramente originale. Quel che è certo è che si tratta del FILM di questo 2014 almeno da un punto di vista che mi è caro da quando aprii per la prima volta questo blog, la costruzione dell’immaginario.



La storia dovrebbe essere nota; in un futuro non troppo lontano la Terra si sta spegnendo e l’umanità è destinata ad estinguersi; un gruppo di esploratori viene inviato in missione per cercare un pianeta abitabile da colonizzare, sfruttando le proprietà di un wormhole per proiettarsi in un'altra galassia altrimenti irraggiungibile; Cooper (Matthew McConaughey) lascia i propri figli sulla Terra senza la certezza di rivederli per il bene superiore dell’umanità.

Mi è piaciuto, è un film da vedere. Altamente spettacolare, rasenta la perfezione tecnica come sempre accade in Christopher Nolan e la tensione drammatica sale per tutte le due ore e 40 minuti che dura; avevo paura fosse troppo lungo, fra le recensioni entusiastiche qualche critica riguardava proprio la durata e il fatto che fosse troppo lento.
Quindi, niente paura. La narrazione va, non vi addormenterete in poltrona. Uscirete quasi tutti pensando “che figo!”.

Cose belle, soprattutto per gli appassionati di fantascienza: le innumerevole citazioni (2001 su tutte); la visione dello spazio assolutamente credibile e realistica; l’accuratezza scientifica e il modo in cui la fisica quantistica viene utilizzata a scopi narrativi (non fa soltanto da contorno ma determina le svolte narrative della storia); l’ambizione di immaginare uno slancio nel futuro per l’umanità; il ritorno a tematiche di fantascienza classica a cui non eravamo più tanto abituati; la speculazione filosofica (non troppo innovativa, visto che molto è in linea con il film di Kubrick); i dilemmi etici; lo scontro padre-figli e l’amore, tout court; il rapporto fra l’uomo e la macchina; l’intelligenza artificiale.

Tanta tanta roba, Interstellar. Forse qui sta qualche limite, perché questa ricchezza di temi finisce per essere un po’ dispersiva.
A voler essere ipercritici c’è qualche buco di sceneggiatura, o comunque in alcuni momenti fondamentali del film certi avvenimenti sembrano del tutto arbitrari e richiedono sospensione dell’incredulità a pacchi.

Riprendendo quanto dicevo all’inizio, è sicuramente il film del 2014 almeno per l’ambizione e per la prospettiva di ampio respiro che trascende il genere fantascientifico; non credo però che sia un capolavoro che fra dieci o venti anni tutti rivedremo più e più volte; e non credo che, nonostante la grande bellezza visiva, sarà un film che influenzerà in modo decisivo il cinema (non solo di fantascienza) come certe pietre miliari che tutti hanno visto (Alien, Blade Runner, lo stracitato 2001; perfino Matrix che in qualche modo ha fissato un certo canone).

Nolan è molto bravo a confezionare film altamente spettacolari ma che non si riducono solo a quello; tensione drammatica, ricercatezza stilistica ed effetti speciali trovano sempre un loro equilibrio e lo spettatore esce soddisfatto e appagato (salvo eccezioni). È un regista fantastico e i suoi film sono sempre pieni di idee e di spunti; porta comunque sempre un po’ più avanti il cinema.
Piace a tutti, Nolan: appassionati di fantascienza e non; amanti di un cinema più tradizionale oppure più innovativo; chi si appassiona alle vicende drammatiche e chi invece vuole avventura.

Anche a me Nolan piace, e mi piacciono tutti i film realizzati da lui che ho visto. Penso però che sia soprattutto un bravissimo assemblatore di temi e situazioni già viste (per me anche per Inception è così); i suoi film oltre un certo limite mi lasciano sempre un po’ freddo, sebbene io li ritenga ben al di sopra la media di ciò che si vede solitamente al cinema (soprattutto di genere).

Beh, sono riuscito a non mettere dentro nessuno spoiler. Buona visione se ancora dovete andare!

Ps. Bravissimo Matthew McConaughey, mi piace sempre di più; per il resto niente da segnalare sugli altri attori, fanno il loro ma niente di che. Ah Anne Hathaway è bellissima.

Pps. Memento però era molto originale; ecco, a Interstellar manca quel tipo di originalità.

giovedì 11 settembre 2014

Se ogni giorno è per il ladro, a noi cosa resta?



Per chi come me vede la lettura come un’azione attiva per aggiungere sempre e comunque qualcosa a se stessi, alla propria visione del mondo, alla conoscenza di ciò che ci gira intorno, un libro come Ogni giorno è per il ladro di Teju Cole è una sorgente a cui attingere a piene mani. 

Attingere esperienze. Fare scoperte. Viaggiare nella memoria. Immaginare un mondo altro da sé (e toccare un mondo altro da sé, perché immaginare è sempre vedere e costruire qualcosa). Trovare le chiavi per aprire certe porte. 

Il libro di Cole (scritto nel 2007 ma pubblicato, non solo da noi, nel 2014)  è una sorta di diario di un giovane nigeriano che, dopo essere emigrato negli Stati Uniti 15 anni prima, ormai cittadino americano, torna per alcune settimane nel suo paese per incontrare i parenti lasciati indietro, gli amici ma soprattutto immergersi in una città e in un paese allo stesso tempo fermi e in fermento. 

Il protagonista del libro sembrerebbe lo stesso Cole ma è invece un suo alter ego, che senza rinnegare le sue origini (anzi andando alla ricerca di tutto ciò da cui è partito per cercare, come afferma nel libro, “l’impossibile”), è ormai perfettamente occidentalizzato e dell’Occidente ha interiorizzato il senso per il bene pubblico e per la legalità, il rifiuto della violenza, le regole democratiche. 

Arrivando in Nigeria (anzi già prima di partire) deve fare subito i conti con uno dei paesi più corrotti del mondo, in cui la mazzetta è elemento imprescindibile nella vita quotidiana di qualsiasi nigeriano; dove lo sviluppo è sempre soltanto apparente e non frutto di programmazione, ricerca e innovazione; dove le disparità sociali fra ricchi e poveri sono sempre più profonde; in cui la cultura è quasi sempre soffocata dalla mancanza di visione ma anche dalla corruzione e dall’illegalità che pervade ogni settore e che soffoca anche un patrimonio storico ricchissimo.

In quelle settimane trascorse a casa di alcuni zii, il protagonista-che-forse-è-ma-in-realtà-non-è-Cole incontra parenti, amici di infanzia, riscopre una città, Lagos, profondamente cambiata ma allo stesso tempo sempre uguale. 
Egli prova a capire non tanto, e non solo, cos’è la Nigeria contemporanea quanto piuttosto se, in qualche modo, potrebbe perfino tornare a vivere lì. 

Alla fine si tratta di un pensiero passeggero, che appare e scompare qua e là nella narrazione e quasi sempre la risposta è no: no, perché è difficilissimo trovare una nicchia in cui coltivare interessi e passioni culturali; no perché professioni prestigiose come quella di medico non consentono più di vivere dignitosamente mentre sono altri i settori dove circolano i soldi; no perché bisognerebbe imparare a convivere ogni giorno con la violenza e la corruzione. 

E infine no perché manca la cosa più importante di tutte, la libertà. La libertà di diventare quello che si vuole e persino la libertà di essere infelici. 

Quella che scopriamo da Cole è una società con una grande livello di sofferenza repressa (alcuni dei passaggi più belli del libro sono dedicati a questo aspetto); i nigeriani si dicono felici perché “devono” essere felici: lo dice il governo, lo dice la religione (cristiana o musulmana che sia), lo dice la regola sociale. 

Si tratta di un paese in cui la storia viene rimossa regolarmente non solo a livello ufficiale ma anche nella vita di tutti i giorni. E se non c'è elaborazione del passato non c'è cultura e non c'è speranza.

L’impressione che ha il lettore è che il protagonista-che-forse-è-ma-non-è-Cole si senta quasi più straniero in Nigeria che in America, dove ha comunque dovuto intraprendere un lungo, e immaginiamo difficile, percorso per adattarsi alla vita occidentale, per integrarsi e per prenderne tutti i vantaggi (una laurea in medicina e una specializzazione in psichiatria, la possibilità di viaggiare e di tornare in Nigeria da turista). 

Questo ritorno alle origini è in realtà anche il racconto di uno sradicamento dalle proprie radici e dalla propria famiglia. Non c’è quasi nulla di romantico perché la vita, qualsiasi vita, è sempre costellata di separazione, di tagli col passato, di ricostruzioni che ci rendono diversi rispetto a quando siamo partiti. E questa diversità si concretizza con la distanza non solo con chi è rimasto indietro (e che immagina un giorno di poter compiere lo stesso viaggio) ma anche con i noi-stessi che eravamo.

Infine, chiudo con alcune considerazioni sulla scrittura di Cole, nella versione tradotta da Gioia Guerzoni per Einaudi. Si tratta di uno stile molto pulito e lineare, senza fronzoli ma da cui emergono frasi dal grandi impatto (dopo magari aver raccontato di una visita in un museo o in una libreria o a qualche vecchia amica).


Citazione:
“…...e mi chiedo perché sono venuto, perché ho cercato, ancora una volta, di recuperare l'impossibile”.

martedì 28 gennaio 2014

Elettronica equa e solidale?

Sulla vicenda Electrolux, a parte lo scandalo del quasi dimezzamento dello stipendio (anche se da qualche parte ho letto che le cifre potrebbero essere diverse con tagli di "solo" 130 euro, quindi occhio a valutare) mi viene spontanea una riflessione che riguarda anche il nostro modello di consumo e il nostro essere consumatori.

Estraniandoci dal caso specifico, prendiamo come dato di fatto che una azienda delocalizzi dall'Italia verso l'Est Europa o la Cina (e in generale tutti i grandi colossi industriali che in Italia non nemmeno mai avuto stabilimenti) per il costo del lavoro inferiore.

E' un fenomeno che esiste, c'è, diamolo per scontato e accettiamolo. Siamo uomini di mondo.

Quale aumento di prezzo sui prodotti che compriamo saremmo in grado di accettare se ci dicessero che la produzione resta in Italia ma le lavatrici costeranno di più?
Oppure, spostando il discorso su un piano etico diverso (non necessariamente legato al destino di tante famiglie italiane), se vi dicessero che il televisore che state comprando invece che 500 costa 550 perché agli operai che lo hanno prodotto (in Cina o dovunque producano Samsung, Lg, Sony, ecc.) sono stati garantiti stipendi più alti, ve lo comprereste lo stesso?

Ci vorrebbe una sorta di bollino di garanzia che per realizzare il prodotto che sto comprando gli operai che ci hanno lavorato su abbiano goduto di condizioni di lavoro dignitose e di un salario equo.

E poi potrei scegliere fra il televisore a 550 euro ma che, semplificando, mi fa stare con la coscienza a posto e quello da 490 prodotto "in quell'altro modo là".

Ripeto la domanda: quale compreremmo? Perché oggi siamo tutti contenti che i prodotti tecnologici, e non solo, siano molto più accessibili che dieci o venti anni fa ma questo è avvenuto grazie al fatto che, fra le altre cose, le multinazionali possono scegliere di andare a produrre dove, semplicemente, gli costa meno la manodopera.

Certo il discorso è complesso, e va calibrato sulle situazioni locali (in un paese in via di sviluppo che un'azienda produca lì e offra stipendi di 200 euro al mese è anche visto come fonte di ricchezza; da noi il mercato è stato spesso gonfiato dagli aiuti di stato; ecc.). Poi, si dovrebbe andare a vedere quanto incide davvero il salario dell'operaio sul prezzo finale di un prodotto (Electrolux per esempio calcola 30 euro di costo in più al pezzo su una lavatrice fatta in Polonia e una qui in Italia).

Se è giusto scandalizzarci per vicende come quella della Electrolux è giusto anche pensare però che quando compriamo in qualche modo legittimiamo quel modello produttivo.

Non vuole essere una critica moralistica ma uno spunto di riflessione. Come consumatori dovremmo essere più consapevoli e messi in grado di scegliere.