Moebius

Moebius

sabato 9 maggio 2015

Di pecore elettriche e unicorni

Giovedì, per la prima volta in vita mia, ho visto Blade Runner al cinema (in versione final cut).


Per un blog dedicato, almeno nelle intenzioni iniziali, all'immaginario e per uno che all'inizio (ere geologiche fa, ormai) ha scelto un nickname ispirato a Philip Dick amare Blade Runner è quasi un atto dovuto, una cosa scontata e forse banale.


Ma può essere banale amare un film che a più di trent'anni dall'uscita ancora riesce a emozionare chi lo vede per la prima volta? Può essere scontato amare un film che richiede attenzione a ogni singola parola, a ogni frame, a ogni inquadratura, gioco di luci, movimento di macchina per coglierne il senso profondo?


Può essere banale amare un film che ci fa sentire uguali a quanto di più lontano, alieno e diverso dovrebbe esserci per noi umani, come un essere artificiale, il frutto dell'ingegneria?


No, ovviamente. Quanto mi piacciono le domande retoriche.


Quasi tutti quelli che conosco hanno visto e amano quel film. Pochi hanno invece letto Do Androids Dream of Electric Sheep?. Il libro e il film sono vicini e lontani allo stesso tempo. Il cuore della storia e le emozioni che suscitano sono pienamente dickiane, l'effetto di meraviglia visiva è invece di Syd Mead e di Ridley Scott ma interpreta e rafforza il racconto di Dick.


Queste distanze variabili fra libro e film vanno lette in base a quanto c'è di Dick nel film di Scott (gli androidi indistinguibili dagli umani; un mondo distopico sommerso dal caos - la palta; gli animali elettrici - anche se questo tema è molto più sfumato nel film; la cupezza del racconto noir; le grandi corporation che dominano il mondo, il senso di soffocamento delle emozioni più profonde) e quanto invece è stato lasciato fuori (la sottotrama religiosa legata al culto del nuovo messia Mercier - fanatismo, spettacolarizzazione e mercificazione della religione e del dolore, impoverimento emotivo; gli animali veri - come simbolo e rappresentazione dei desideri repressi e dei sensi di colpa di una società che ha visto la quasi totale estinzione della vita animale - Vs gli animali elettrici - surrogati che solo in parte compensano la scarsità di empatia presente nel mondo; la polizia parallela composta da androidi).


E poi c'è l'elemento più importante di tutti, che fa sì che libro e film siano comunque un unico universo, il tema portante della fantascienza dickiana (e di un bel pezzo della filosofia occidentale): l'inconoscibilità della nostra natura e di quella del reale. Cosa è umano, cosa non lo è? Siamo umani perché lo dice la biologia o perché abbiamo aspirazioni, ci innamoriamo, sogniamo pecore elettriche (o unicorni)?


Quello che percepiamo con i nostri sensi è davvero oggettivo? È davvero reale? Quello che sappiamo di noi stessi è davvero ciò che siamo?


E se scoprissimo di essere altro da noi, smetteremmo di essere noi? Avremmo una vita meno degna di essere vissuta? O continueremmo invece a chiedere più vita come Roy Batty?


Quello che so è che proseguiremo sempre a interrogarci su chi e cosa siamo, su come dare sostanza ai nostri sogni, come inseguirli e renderli reali, fossero anche unicorni.


La realtà è quella cosa che quando smetti di crederci non sparisce, è quello che dice Dick in risposta alla domanda di uno studente in uno dei suoi romanzi più difficili e stranianti, Valis. E’ la citazione di PKD che preferisco, perché penso dia il senso della sua opera molto più di altre (tipo l’Io sono vivo, voi siete morti di Ubik).


Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (perché per me il titolo del libro sarà sempre la versione originale, non sarà mai Blade Runner o Il cacciatore di androidi) è, per questi motivi il libro che amo di più di Dick, più di Ubik, più di Le tre stimmate di Palmer Eldritch, più di Un oscuro scrutare che pure adoro. Lo amo più del film (che è comunque uno dei miei film preferiti) perché lo considero più complesso e più denso di significati e perché lascia allo spettatore più domande che risposte, mentre in Blade Runner (a forza di director’s cut) la risposta alla domanda più grande di tutte sta lì, in bella vista.


[Da qui in avanti c’è qualche spoiler sul libro, per chi volesse leggerlo; personalmente penso sia ridicolo parlare di spoiler per un libro di quasi 50 anni fa ma ormai c’è questa sacra paura dell’anticipazione…]


Il Deckard di Dick e quello di Ridley Scott. L’investigatore del romanzo dickiano è il classico protagonista perdente dei romanzi di Dick, non è affascinante (non ha la smorfia di Harrison Ford), è sposato con un’arpia insensibile dedita al culto di Mercier, ha come massima aspirazione potersi comprare una pecora vera, massimo status symbol, invece di quella elettrica.
Il Deckard del film è il protagonista di un film noir, non sappiamo niente di lui a parte che caccia androidi. Deve svolgere un lavoro, seppur controvoglia, e si troverà invischiato in un’altra storia.


Il romanticismo. Il film si basa molto, oltre che che sul contrasto umano/artificale, sulla storia d’amore fra Rick e Rachel, e sul percorso che compiono verso la consepevolezza della propria natura. Nel romanzo di Dick è tutto molto più sporco e incerto; Rachel non è quest’essere così amabile ed etereo e la storia non andrà per niente come nel film; piuttosto sarà un incontrarsi di desideri e uno scontrarsi di personalità fino all’epilogo. E a rimetterci sarà una pecora.


Un diverso finale. Come dicevo, nel libro il finale è molto più aperto. Non ci sono elementi per pensare con certezza che Rick sia un androide (sì lo sospettiamo e lo sospetta anche lui in una parte fondamentale del libro, ma nessuno ce lo dice, non c’è un Gaff a distribuire origami). L’epicità dello scontro fra Rick e Roy è tutta del film (ed è naturalmente un suo gran merito), nel romanzo tutto si risolve in modo diverso, forse anche più sciatto e sicuramente meno epico.
La storia d’amore con Rachel, poi, non è proprio una storia d’amore. Nessun finale romantico.


Unicorni vs Pecore. Che sognare un unicorno sia molto più affascinante che desiderare una pecora da tenere in terrazzo è cosa ovvia. Il tema degli animali, elettrici e non, è però fondamentale in Dick (già dal titolo del romanzo). 
Il mondo in cui si muove Deckard è un mondo post-atomico, ormai impoverito, in cui rimangono solo pochi derelitti mentre chi può parte per le colonie spaziali (le colonie extra-mondo del film); le radiazioni hanno causato la quasi totale estinzione degli animali e una gran varietà di mutazioni e malattie negli esseri umani (altro tema importante del libro: si veda il personaggio che nel film diventa Sebastian). 
Gli animali diventano rappresentazione della propria ricchezza e posizione sociale; chi non può permettersene uno lo compra elettrico e spera che i vicini lo scambino per uno vero.
Il desiderio di un animale è quindi esemplificazione, nel romanzo, dei desideri e dei bisogni, anche banalmente consumistici, espressi da quell’animale sociale che è l’uomo.
L’unicorno che sogna Deckard nel film non rappresenta, ovviamente, il desiderio del protagonista di avere un unicorno in casa ma tutto ciò che lui non capisce della sua vita, a cominciare dai propri sogni.
Pecore e unicorni svolgono però una funzione simile dal punto di vista narrativo, sono un po’ un anello di congiunzione fra libro e film, rappresentando quel qualcosa che ci fa, tutti, più umani.




Ho messo in ordine un po’ di idee su quello che mi piace pensare come l'universo narrativo Blade Runner. Spero di aver messo dentro anche qualche spunto interessante per chi, se già non lo conosce, abbia voglia di avvicinarsi a Dick, leggendo anche altri suoi libri.


Se ne volete parlare, sono qua. Vi lascio con la versione originale del monologo finale di Roy.


domenica 29 marzo 2015

The Imitation Game

Vedere, e recensire, un film dopo che tutti quelli che lo volevano guardare lo hanno già visto e che giornali e blog ne hanno già scritto forse non aggiunge nulla.
Serve però a me, per registrare le impressioni, a caldo o a freddo a seconda dei casi, e per fare ordine fra le idee. Per far emergere le idee.

Quindi parliamo di The Imitation Game,  visto venerdì sera insieme a un'altra decina di spettatori in una saletta piccola e in qualche modo intima, in buona compagnia per fortuna.
Passo indietro. Il motivo per il quale finora non lo avevo visto era un sincero pregiudizio sul modo in cui era stata resa la storia di Alan Turing. Temevo una riduzione a macchietta di un personaggio dalla storia drammatica di cui avevo avuto modo di leggere negli anni (off topic ma non troppo: un buon libro per comprendere il contributo di Turing alla moderna informatica e agli studi di intelligenza artificiale è Macchine come noi, Laterza). Poi naturalmente era anche mancata l'occasione giusta.

Venerdì sera.
- Andiamo al cinema?
- Vedo cosa danno. Ah, c'è Whiplash,  lo vorrei vedere. Noi e la Giulia, dovrebbe essere carino. Ah no, è alle 20.50. Guarda fanno ancora The Imitation Game.
- Ok, dai. Poi se non mi piace te lo rinfaccerò per tutta la vita.

Venerdì notte, dopo il film.
- Ti è piaciuto?
- Sì molto. Hai scelto bene.
- Fiuuuuuu. 

E a me? 

Giudizio più che positivo. Film di impostazione classica, che si concentra su un periodo ben circoscritto della vita di Turing, e probabilmente il più noto al grande pubblico, quello di Bletchley Park alla caccia del codice per decrittare la macchina Enigma. La biografia di un geniale matematico diventa quindi la storia eroica di un gruppo male assortito che impara a lavorare insieme e a rispettarsi per dare un contributo decisivo alla vittoria della guerra contro il nazifascismo. 

Ci sono il dramma esistenziale di Alan, una forte figura femminile, un quasi amore, la repressione dell'omosessualità, colpi di scena e un po' di spionaggio spiccio. Aggiungete un attore in ascesa come Benedict Cumberbatch, una giovane diva come Keira Knigthley, miscelate bene e otterrete quasi due ore di ottimo intrattenimento,  buoni sentimenti, commozione e grandi ideali. 

 Una critica? La storia di Turing è ipersemplificata (e probabilmente nemmeno troppo precisa); alle sue teorie si fa soltanto qualche cenno e non è detto che lo spettatore esca dal cinema avendo compreso l'importanza del gioco dell'imitazione del titolo (cioè il Test di Turing) nella storia della scienza e del pensiero contemporaneo. Inoltre Turing è rappresentato come una sorta di freak,  evidentemente con una qualche forma di autismo (si dice che potesse soffrire della sindrome di Asperger ma non mi risulta sia del tutto confermato).

Però non sarebbe corretto giudicare un film per quello che avremmo voluto fosse. Giustamente è stata fatta una scelta, e questa ha portato molte più persone al cinema e molte più persone a interessarsi alla storia di Turing.

The Imitation Game emoziona, avvicina lo spettatore alla Storia, stimola riflessioni e voglia di approfondire. E intrattiene. 
 Se ancora c'è qualcuno che non lo ha visto, beh, è consigliato col mio bollino.

PS. Qualche articolo utile:

Un computer ha superato il test di Turing (notizia poi in parte ridimensionata)


giovedì 19 marzo 2015

Walking on the moon

Ieri erano 50 anni da quando l'astronauta russo Aleksej Archipovič Leonov ha compiuto la prima passeggiata spaziale della storia
(foto da: Il Post

lunedì 9 marzo 2015

Una ragazza divertente

All'uscita avevo un po' snobbato l'ultimo libro di Nick Hornby, Funny Girl, fondamentalmente per due motivi.
Il primo è che sono passati molti anni da quando ho letto qualcosa di suo (forse Un ragazzo oppure più probabilmente Come diventare buoni).
Il secondo, collegato al primo, è che nella mia testa (in quel particolare scoparto della mia testa in cui archivio e classifico i libri che leggo, gli autori che mi piacciono, le cose che metto nella mia personalissima lista dei desideri) lo scrittore inglese da un certo punto in poi mi è sembrato appartenere a un periodo ormai passato (gli anni '90, primi anni duemila) in cui io stesso ero diverso e avevo gusti in parte differenti anche in materia di letture.

Per me Nick Hornby è sempre stato quello di Febbre a 90° e Alta Fedeltà, libri in qualche modo molto caratterizzanti del momento in cui sono stato scritti e di un modo di sentire che sembra lontano anni luce. Un po' la stessa cosa la sento per Jonathan Coe, un altro che a cavallo fra '90 e anni zero amavo molto e consigliavo a tutti e che oggi forse non amerei allo stesso modo.

E' stato quindi quasi per caso che, cercando qualcosa di leggero e divertente, l'ebook dell'ultimo Hornby è finito sul mio ereader, rivelandosi in linea con le aspettative, nel bene e nel male.

Brevemente, il romanzo (ambientato a metà anni '60) racconta la storia di Barbara, bionda ventenne e col fisico da starlette televisiva che da una sperduta cittadina nel nord dell'Inghilterra di trasferisce a Londra per cercare di coronare il sogno di diventare un'attrice comica come il suo idolo Lucille Ball.
Manco a dirlo, dopo un breve periodo di ambientamento nella metropoli Barbara riesce a dimostrare il suo talento comico e a diventare la protagonista di una sit-com della BBC.

Da lì in avanti la vicenda scorre in modo lineare, senza clamorosi colpi di scena; Barbara si muove nella swingin' London, in una parabola che da provinciale imbranata la porta a frequentare feste e luoghi alla moda, dribblando spasimanti e godendosi la fama di donna in ascesa della commedia tv inglese.

Il romanzo, scritto con grazia e umorismo, racconta soprattutto un'epoca, gli anni '60, in un Inghilterra in cui si passa da una cultura tradizionale a un'altra che sarà segnata per sempre dai Beatles e dai Rolling Stones, dai rotocalchi e da trasformazioni sociali profonde che porteranno alla crisi dei laburisti e, qualche anno dopo, all'arrivo della Tatcher.

Con qualche leggero colpo di pennello, Nick Hornby mostra i cambiamenti in corso nella società inglese e racconta come fosse una tipica storia di successo e scalata sociale le vicende di Barbara e degli altri personaggi che le ruotano intorno (Clive, il vanesio attore co-protagonista della sua sit-com; Dennis, il produttore; i due sceneggiatori Tony e Bill).

I momenti migliori del romanzo sono probabilmente quelli in cui compaiono i due sceneggiatori, uno apertamente gay con ambizioni artistiche, l'altro probabilmente gay ma dalla sessualità incerta (anche e soprattutto a se stesso); sono i due personaggi che fanno da snodo alla vicenda in quanto autori di una sit-com che deve essere allo stesso tempo innovativa e rispecchiare i cambiamenti sociali in atto e in quanto personaggi più complessi, intorno ai quali far girare le tematiche in qualche modo più impegnate del romanzo (cultura alta vs cultura bassa; l'omosessualità, all'epoca ancora un reato in Inghilterra; i rapporti fra i sessi che si fanno sempre più paritari e, sessualmente, liberi, almeno in certi settori; il matrimonio e una nuova idea di famiglia).

Il libro strapperà molti sorrisi al lettore e sono sicuro piacerà a molti; Funny Girl manca però di pathos, non c'è mai un momento drammatico o una svolta narrativa inaspettata che riattizzi l'attenzione del lettore. Sembra davvero di vedere una vecchia serie tv, dove tutto è ovattato, piacevole e poco impegnativo, con una vena malinconica che è la cifra tipica di Hornby ma nella quale è davvero difficile riconoscersi (al contrario, ad esempio, di quanto potrebbe accadere al vecchio lettore di Alta fedeltà).

giovedì 19 febbraio 2015

Sei nei guai? Chiama Saul!

I fan di Breaking Bad hanno aspettato l'esordio di Better Call Saul con un'attesa paragonabile a quella di un tifoso in attesa che riparta il campionato o di un innamorato al primo appuntamento.



Lo spin-off di una delle serie più belle, premiate e acclamate degli ultimi anni (la più bella? Probabile) già al suo annuncio ha provocato due tipi di reazione: amore incondizionato (Vince Gilligan è un genio, anche se non dovesse essere come Breaking Bad va comunque vista, fosse anche solo per riconoscenza!) o sano scetticismo (BB è il canone di riferimento per una serie fatta bene, comunque inarrivabile, perché cercare di sfruttare ancora il suo successo con un spin-off che non potrà mai essere come l'originale?).

Posizioni entrambe accettabili. Penso anche io che BB sia irraggiungibile ma ho comunque atteso con ansia BCS [nota per il lettore: l'ansia per una serie Tv non è vera ansia è solo un modo di dire], con la curiosità di vedere cosa poteva uscire fuori dalla stessa fucina che ha partorito le vicende di Walter White e Jesse Pinkman.

AMC ha trasmesso, negli USA, il terzo episodio e mi sento di dire che Better Call Saul è molto molto buona. Altri hanno già scritto che è più di uno spin-off e che potrebbe vivere di vita propria e mi sento di condividere a pieno questa opinione.

Vero che ha tutti gli elementi di uno spin-off, a cominciare ovviamente dal protagonista, ma la vicenda è del tutto autonoma (non c'è Saul che cambia città e magicamente prosegue i suoi affari da un'altra parte, come una Denise che lascia casa Robinson e va a vivere da sola) e, fin dai primi due episodi, acquista uno spessore drammatico che ti fa (quasi) dimenticare che si tratta dell'avvocato di Heisenberg.

La storia, ambientata nel 2002, racconta di Saul Goodman, che ancora non sia chiama Saul Goodman ma James McGill, che si arrabatta a fare l'avvocato ad Albuquerque accettando piccoli casi d'ufficio per sbarcare il lunario alla ricerca della svolta, nella forma di un caso importante che porti soldi e fama. Jimmy McGill non è ancora l'avvocato sfrontato e spaccone degli spot in tv, con le mani in pasta dappertutto ma un poveraccio che ha l'ufficio nel retro di un salone di bellezza asiatico.

E' un perdente che ha vissuto di espedienti, che ha perso le grandi occasioni e che dovrà scegliere se attraversare la linea e diventare qualcun altro, se seguire la propria coscienza o venire a patti col diavolo.



Fin dall'inizio, e vedremo più avanti, è chiaro che gli autori fanno muovere il personaggio sul filo: noi sappiamo chi diventerà ma come? E' un personaggio che ha una sua etica ma è in qualche modo sempre un mediocre disposto a vivere in un area grigia dove si incontreranno il personaggio Saul Goodman e l'uomo James McGill.

Per tante cose si è ancora nell'universo di Breaking Bad; ci sono il New Mexico e il deserto; c'è la regia che alterna grandi panoramiche a inquadrature laterali che mettono in evidenza piccoli particolari; c'è il montaggio sincopato di alcune scene di BB; e c'è una scrittura di qualità superiore a quasi tutto quello che passa in tv.


Il personaggio interpretato da Bob Odenkirk acquista molta più profondità, non è una macchietta come tratti sembrava in BB e lo stesso Odenkirk sembra salito di livello come capacità recitative, o forse semplicemente nella serie madre veniva oscurato dalla bravura di Bryan Cranston.

Serie da vedere (tanto la prima stagione saranno solo 10 episodi), cercando di sforzarsi di vederla come qualcosa di separato da BB e comunque differente (nonostante la presenza di qualche vecchia conoscenza...). Magari più avanti le due serie si riuniranno in qualche modo (è pur sempre uno spin-off, no?) ma sono sicuro che gli autori sapranno farlo nel modo giusto.

E ricordate... in legal trouble?... Better Call Saul! [se habla espanol]


mercoledì 18 febbraio 2015

Non di sole piume vive l'uomo (e il cinema)

Andiamo subito diretti. Birdman (o l'imprevedibile virtù dell'ignoranza) è, a modesto e contestabilissimo avviso di chi scrive, un gran bel film.

Ora vediamo perché.

Due grandissimi attori, entrambi potenzialmente da Oscar
La trama la trovate un po' ovunque in giro (vi consiglio magari la guida del Post senza troppi spoiler) così come recensioni. In estrema sintesi è la storia di Riggan Thomson (Micheal Keaton, bravissimo), un attore famoso  per aver interpretato in tre film il supereroe Birdman, arrivato a fine carriera senza soldi e senza riconoscimenti e che cerca di ricostruirsi un'immagine mettendo in scena (autore, regista e attore protagonista) una pièce tratta da Di cosa parliamo quando parliamo d'amore di Raymond Carver. Qui si intrecciano varie storie legate agli altri personaggi: la figlia ex tossicodipendente (Emma Stone), la ex moglie e l'attuale compagna (co-protoganista femminile dello spettacolo); l'altra attrice femminile (Naomi Watts) e l'esuberante e talentuoso fidanzato, ingaggiato all'toultimo momento come coprotagonista (Edward Norton, torna a livelli altissimi come non capitava non so più da quanti anni dopo tanti film e parti di poco conto).

Quindi è la storia di una messa in scena teatrale dalle prove fino alla prima. E basta?

Beh, fondamentalmente sì ma non solo. Per districarci passiamo a un aspetto centrale del film di Inarritu: la resa filmica. La storia non può essere svincolata dalla regia e dal montaggio; le scelte di Inarritu fanno parte della narrazione stessa perché il film si basa molto sul suo impatto estetico più che sulla storia.

E' un lungo, lunghissimo piano sequenza (ottenuto con qualche trucco cinematografico di notevole fattura tecnica). La camera si muove di continuo dietro, davanti, di fianco a Micheal Keaton e agli altri attori ma non solo; l'effetto piano sequenza prosegue in strada, in cielo, nelle transizioni da giorno a notte.

Forse la scena più memorabile del film
La maggior parte del film si svolge in interni, fra i camerini, le quinte e il palco del teatro dove sarà messo in scena lo spettacolo; l'azione, apparentemente assente nella vicenda (è un film molto parlato, in cui vengono messe in scena delle relazioni), sta tutta nella camera in continuo movimento.

Torniamo alla storia. Altro personaggio del film è Birdman stesso, che viene rappresentato come l'alter ego di Riggan; tanto Riggan vuole ricostruirsi un'immagine basata sul prestigio e sul riconoscimento come attore tanto Birdman spinge per farlo tornare al cinema commerciale dei grandi incassi e della popolarità (una delle battute più efficaci, pronunciate da Edward Norton, l'attore di teatro, recita: La popolarità è la cugina zoccola del prestigio).

Anche Emma Stone è belliss... ops, bravissima
Il film è quindi giocato sul dualismo interno a Riggan e ai suoi deliri di onnipotenza (lui, in fondo è Birdman! Può spostare gli oggetti e può volare se lo vuole!) e sull'oscillazione fra realismo (il rapporto con la figlia; le idiosincrasie del personaggio di Ed Norton e la sua incapacità di essere vero anche nella vita e non soltanto sul palcoscenico) e fantastico (Riggan può davvero volare o è un parto della sua mente?).

Elementi realistici e fantastici alla fine sembrano riunirsi ma uscendo dal cinema non si potrà fare a meno di chiedersi se, come e quando. Ma il film lascia fondamentalmente irrisolte tutte le domande, sia quelle meta-cinematografiche (non mi viene in mente un'espressione migliore per quello che intendo) sia quelle proprie interne alla storia e forse questo potrà essere ciò che ad alcuni farà storcere la bocca.

Personalmente amo questo tipo di storie, frutto di una sensibilità post-moderna, in cui le cose non sono tutte lineari e chiare e richiedono di soffermarsi più sul contesto e sulle relazioni. Più che raccontare una storia, il film stesso è una storia rendendo difficile separare, nel giudizio, il contenuto dalla forma.

sabato 15 novembre 2014

Bello Interstellar (con qualche ma)

Di Interstellar si è parlato così tanto che è difficile aggiungere qualcosa di veramente originale. Quel che è certo è che si tratta del FILM di questo 2014 almeno da un punto di vista che mi è caro da quando aprii per la prima volta questo blog, la costruzione dell’immaginario.



La storia dovrebbe essere nota; in un futuro non troppo lontano la Terra si sta spegnendo e l’umanità è destinata ad estinguersi; un gruppo di esploratori viene inviato in missione per cercare un pianeta abitabile da colonizzare, sfruttando le proprietà di un wormhole per proiettarsi in un'altra galassia altrimenti irraggiungibile; Cooper (Matthew McConaughey) lascia i propri figli sulla Terra senza la certezza di rivederli per il bene superiore dell’umanità.

Mi è piaciuto, è un film da vedere. Altamente spettacolare, rasenta la perfezione tecnica come sempre accade in Christopher Nolan e la tensione drammatica sale per tutte le due ore e 40 minuti che dura; avevo paura fosse troppo lungo, fra le recensioni entusiastiche qualche critica riguardava proprio la durata e il fatto che fosse troppo lento.
Quindi, niente paura. La narrazione va, non vi addormenterete in poltrona. Uscirete quasi tutti pensando “che figo!”.

Cose belle, soprattutto per gli appassionati di fantascienza: le innumerevole citazioni (2001 su tutte); la visione dello spazio assolutamente credibile e realistica; l’accuratezza scientifica e il modo in cui la fisica quantistica viene utilizzata a scopi narrativi (non fa soltanto da contorno ma determina le svolte narrative della storia); l’ambizione di immaginare uno slancio nel futuro per l’umanità; il ritorno a tematiche di fantascienza classica a cui non eravamo più tanto abituati; la speculazione filosofica (non troppo innovativa, visto che molto è in linea con il film di Kubrick); i dilemmi etici; lo scontro padre-figli e l’amore, tout court; il rapporto fra l’uomo e la macchina; l’intelligenza artificiale.

Tanta tanta roba, Interstellar. Forse qui sta qualche limite, perché questa ricchezza di temi finisce per essere un po’ dispersiva.
A voler essere ipercritici c’è qualche buco di sceneggiatura, o comunque in alcuni momenti fondamentali del film certi avvenimenti sembrano del tutto arbitrari e richiedono sospensione dell’incredulità a pacchi.

Riprendendo quanto dicevo all’inizio, è sicuramente il film del 2014 almeno per l’ambizione e per la prospettiva di ampio respiro che trascende il genere fantascientifico; non credo però che sia un capolavoro che fra dieci o venti anni tutti rivedremo più e più volte; e non credo che, nonostante la grande bellezza visiva, sarà un film che influenzerà in modo decisivo il cinema (non solo di fantascienza) come certe pietre miliari che tutti hanno visto (Alien, Blade Runner, lo stracitato 2001; perfino Matrix che in qualche modo ha fissato un certo canone).

Nolan è molto bravo a confezionare film altamente spettacolari ma che non si riducono solo a quello; tensione drammatica, ricercatezza stilistica ed effetti speciali trovano sempre un loro equilibrio e lo spettatore esce soddisfatto e appagato (salvo eccezioni). È un regista fantastico e i suoi film sono sempre pieni di idee e di spunti; porta comunque sempre un po’ più avanti il cinema.
Piace a tutti, Nolan: appassionati di fantascienza e non; amanti di un cinema più tradizionale oppure più innovativo; chi si appassiona alle vicende drammatiche e chi invece vuole avventura.

Anche a me Nolan piace, e mi piacciono tutti i film realizzati da lui che ho visto. Penso però che sia soprattutto un bravissimo assemblatore di temi e situazioni già viste (per me anche per Inception è così); i suoi film oltre un certo limite mi lasciano sempre un po’ freddo, sebbene io li ritenga ben al di sopra la media di ciò che si vede solitamente al cinema (soprattutto di genere).

Beh, sono riuscito a non mettere dentro nessuno spoiler. Buona visione se ancora dovete andare!

Ps. Bravissimo Matthew McConaughey, mi piace sempre di più; per il resto niente da segnalare sugli altri attori, fanno il loro ma niente di che. Ah Anne Hathaway è bellissima.

Pps. Memento però era molto originale; ecco, a Interstellar manca quel tipo di originalità.

giovedì 11 settembre 2014

Se ogni giorno è per il ladro, a noi cosa resta?



Per chi come me vede la lettura come un’azione attiva per aggiungere sempre e comunque qualcosa a se stessi, alla propria visione del mondo, alla conoscenza di ciò che ci gira intorno, un libro come Ogni giorno è per il ladro di Teju Cole è una sorgente a cui attingere a piene mani. 

Attingere esperienze. Fare scoperte. Viaggiare nella memoria. Immaginare un mondo altro da sé (e toccare un mondo altro da sé, perché immaginare è sempre vedere e costruire qualcosa). Trovare le chiavi per aprire certe porte. 

Il libro di Cole (scritto nel 2007 ma pubblicato, non solo da noi, nel 2014)  è una sorta di diario di un giovane nigeriano che, dopo essere emigrato negli Stati Uniti 15 anni prima, ormai cittadino americano, torna per alcune settimane nel suo paese per incontrare i parenti lasciati indietro, gli amici ma soprattutto immergersi in una città e in un paese allo stesso tempo fermi e in fermento. 

Il protagonista del libro sembrerebbe lo stesso Cole ma è invece un suo alter ego, che senza rinnegare le sue origini (anzi andando alla ricerca di tutto ciò da cui è partito per cercare, come afferma nel libro, “l’impossibile”), è ormai perfettamente occidentalizzato e dell’Occidente ha interiorizzato il senso per il bene pubblico e per la legalità, il rifiuto della violenza, le regole democratiche. 

Arrivando in Nigeria (anzi già prima di partire) deve fare subito i conti con uno dei paesi più corrotti del mondo, in cui la mazzetta è elemento imprescindibile nella vita quotidiana di qualsiasi nigeriano; dove lo sviluppo è sempre soltanto apparente e non frutto di programmazione, ricerca e innovazione; dove le disparità sociali fra ricchi e poveri sono sempre più profonde; in cui la cultura è quasi sempre soffocata dalla mancanza di visione ma anche dalla corruzione e dall’illegalità che pervade ogni settore e che soffoca anche un patrimonio storico ricchissimo.

In quelle settimane trascorse a casa di alcuni zii, il protagonista-che-forse-è-ma-in-realtà-non-è-Cole incontra parenti, amici di infanzia, riscopre una città, Lagos, profondamente cambiata ma allo stesso tempo sempre uguale. 
Egli prova a capire non tanto, e non solo, cos’è la Nigeria contemporanea quanto piuttosto se, in qualche modo, potrebbe perfino tornare a vivere lì. 

Alla fine si tratta di un pensiero passeggero, che appare e scompare qua e là nella narrazione e quasi sempre la risposta è no: no, perché è difficilissimo trovare una nicchia in cui coltivare interessi e passioni culturali; no perché professioni prestigiose come quella di medico non consentono più di vivere dignitosamente mentre sono altri i settori dove circolano i soldi; no perché bisognerebbe imparare a convivere ogni giorno con la violenza e la corruzione. 

E infine no perché manca la cosa più importante di tutte, la libertà. La libertà di diventare quello che si vuole e persino la libertà di essere infelici. 

Quella che scopriamo da Cole è una società con una grande livello di sofferenza repressa (alcuni dei passaggi più belli del libro sono dedicati a questo aspetto); i nigeriani si dicono felici perché “devono” essere felici: lo dice il governo, lo dice la religione (cristiana o musulmana che sia), lo dice la regola sociale. 

Si tratta di un paese in cui la storia viene rimossa regolarmente non solo a livello ufficiale ma anche nella vita di tutti i giorni. E se non c'è elaborazione del passato non c'è cultura e non c'è speranza.

L’impressione che ha il lettore è che il protagonista-che-forse-è-ma-non-è-Cole si senta quasi più straniero in Nigeria che in America, dove ha comunque dovuto intraprendere un lungo, e immaginiamo difficile, percorso per adattarsi alla vita occidentale, per integrarsi e per prenderne tutti i vantaggi (una laurea in medicina e una specializzazione in psichiatria, la possibilità di viaggiare e di tornare in Nigeria da turista). 

Questo ritorno alle origini è in realtà anche il racconto di uno sradicamento dalle proprie radici e dalla propria famiglia. Non c’è quasi nulla di romantico perché la vita, qualsiasi vita, è sempre costellata di separazione, di tagli col passato, di ricostruzioni che ci rendono diversi rispetto a quando siamo partiti. E questa diversità si concretizza con la distanza non solo con chi è rimasto indietro (e che immagina un giorno di poter compiere lo stesso viaggio) ma anche con i noi-stessi che eravamo.

Infine, chiudo con alcune considerazioni sulla scrittura di Cole, nella versione tradotta da Gioia Guerzoni per Einaudi. Si tratta di uno stile molto pulito e lineare, senza fronzoli ma da cui emergono frasi dal grandi impatto (dopo magari aver raccontato di una visita in un museo o in una libreria o a qualche vecchia amica).


Citazione:
“…...e mi chiedo perché sono venuto, perché ho cercato, ancora una volta, di recuperare l'impossibile”.

martedì 28 gennaio 2014

Elettronica equa e solidale?

Sulla vicenda Electrolux, a parte lo scandalo del quasi dimezzamento dello stipendio (anche se da qualche parte ho letto che le cifre potrebbero essere diverse con tagli di "solo" 130 euro, quindi occhio a valutare) mi viene spontanea una riflessione che riguarda anche il nostro modello di consumo e il nostro essere consumatori.

Estraniandoci dal caso specifico, prendiamo come dato di fatto che una azienda delocalizzi dall'Italia verso l'Est Europa o la Cina (e in generale tutti i grandi colossi industriali che in Italia non nemmeno mai avuto stabilimenti) per il costo del lavoro inferiore.

E' un fenomeno che esiste, c'è, diamolo per scontato e accettiamolo. Siamo uomini di mondo.

Quale aumento di prezzo sui prodotti che compriamo saremmo in grado di accettare se ci dicessero che la produzione resta in Italia ma le lavatrici costeranno di più?
Oppure, spostando il discorso su un piano etico diverso (non necessariamente legato al destino di tante famiglie italiane), se vi dicessero che il televisore che state comprando invece che 500 costa 550 perché agli operai che lo hanno prodotto (in Cina o dovunque producano Samsung, Lg, Sony, ecc.) sono stati garantiti stipendi più alti, ve lo comprereste lo stesso?

Ci vorrebbe una sorta di bollino di garanzia che per realizzare il prodotto che sto comprando gli operai che ci hanno lavorato su abbiano goduto di condizioni di lavoro dignitose e di un salario equo.

E poi potrei scegliere fra il televisore a 550 euro ma che, semplificando, mi fa stare con la coscienza a posto e quello da 490 prodotto "in quell'altro modo là".

Ripeto la domanda: quale compreremmo? Perché oggi siamo tutti contenti che i prodotti tecnologici, e non solo, siano molto più accessibili che dieci o venti anni fa ma questo è avvenuto grazie al fatto che, fra le altre cose, le multinazionali possono scegliere di andare a produrre dove, semplicemente, gli costa meno la manodopera.

Certo il discorso è complesso, e va calibrato sulle situazioni locali (in un paese in via di sviluppo che un'azienda produca lì e offra stipendi di 200 euro al mese è anche visto come fonte di ricchezza; da noi il mercato è stato spesso gonfiato dagli aiuti di stato; ecc.). Poi, si dovrebbe andare a vedere quanto incide davvero il salario dell'operaio sul prezzo finale di un prodotto (Electrolux per esempio calcola 30 euro di costo in più al pezzo su una lavatrice fatta in Polonia e una qui in Italia).

Se è giusto scandalizzarci per vicende come quella della Electrolux è giusto anche pensare però che quando compriamo in qualche modo legittimiamo quel modello produttivo.

Non vuole essere una critica moralistica ma uno spunto di riflessione. Come consumatori dovremmo essere più consapevoli e messi in grado di scegliere.

domenica 17 marzo 2013

Se io fossi un demagogo

Se io volessi semplificare potrei associare le dichiarazioni in cui Grillo diceva che la mafia è meglio dei partiti oppure quelle contro la cittadinanza agli stranieri nati in Italia con il fatto che il capo del Movimento 5 Stelle avesse vietato ai "suoi" parlamentari di votare alla seconda e alla terza carica dello Stato Pietro Grasso (ex procuratore nazionale anti-mafia) e Laura Boldrini (ex portavoce dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e da sempre in prima linea nelle varie "emergenze" immigrazione nel nostro paese).

Sarebbe veramente semplice semplificare in questo modo, usare toni demagogici e populisti per gridare che Grillo e il suo movimento sono contro la lotta alla mafia e contro i diritti di immigrati e rifugiati ma so che nel M5S ci sono molte persone per bene che su certi temi ragioneranno con la propria testa e "senza vincolo di mandato" come recita l'art. 67 della Costituzione, che il capo vorrebbe abolire.

sabato 8 dicembre 2012

Quello che vuole la tecnologia

More about Quello che vuole la tecnologiaPer rispondere alla domanda “Cosa vuole la tecnologia?” Kevin Kelly ricorre alla teoria dei sistemi adattivi complessi per mostrare quanto la tecnologia sia qualcosa di più che un mero insieme di aggeggi tecnologici. Ma già il fatto di porsi questa domanda significa prendere posizione perché si parte dall’assunto che la tecnologia, appunto, voglia qualcosa?

Innanzitutto, guardare alla tecnologia come a un sistema complesso significa stabilire i confini del fenomeno che stiamo indagando. Kelly definisce l’oggetto della sua indagine “technium”, che è dato non soltanto dagli artefatti tecnologici prodotti dall’uomo durante la sua evoluzione ma è piuttosto il risultato di quanto prodotto dalla civiltà umana dal momento in cui il primo ominide si è alzato in posizione eretta.

Da quel momento il technium ha iniziato a evolvere parallelamente all’aumento delle capacità cognitive dell’uomo. Per alcuni millenni l’evoluzione del technium è proceduta molto lentamente: le invenzioni/scoperte più significative che hanno accompagnato la crescita dell’umanità sono state, in ordine sparso, i primi manufatti di selce, il fuoco, la lavorazione del legno, l’agricoltura, la vita in comunità sedentarie, i primi villaggi. Ovviamente il linguaggio è ciò che ha rappresentato il salto in avanti più grande, così come millenni dopo la scrittura.

Questo approccio non risulta certo nuovo a chi abbia un po’ di dimestichezza con l’antropologia, con la sociologia e, per rimanere ai media e alla tecnologia, col pensiero mcluhaniano.
Ciò che ho trovato particolarmente interessante è il parallelismo che Kelly sviluppa fra evoluzione biologica e evoluzione tecnologica. Mettendo da parte l’idea tradizionale di evoluzione che, a partire dal Big Bang, è guidata soltanto dal caos Kelly fa invece riferimento a quella corrente di pensiero che vede una intenzionalità nel processo evolutivo. Questa intenzionalità significa, semplificando, che il più piccolo organismo unicellulare concepibile a un certo punto ha desiderato riprodursi; alla riproduzione segue una sempre maggiore complessità biologica (da una a due cellule, e così via), fino ad arrivare a noi.

Traslando questo discorso verso la tecnologia, il technium (di cui noi stessi facciamo parte se lo vediamo come un sistema complesso) è evoluto nel corso dei millenni con uno scopo preciso: espandersi, crescere, divenire sempre più complesso. Questa evoluzione all’inizio è stata lenta ma al crescere della complessità è diventata sempre più veloce fino ad arrivare agli ultimi secoli, durante i quali si è registrata un’impennata esponenziale della quantità di innovazioni introdotte nel technium.
Ogni tecnologia (in senso lato: il sistema giuridico è una tecnologia, il metodo scientifico è una tecnologia, e delle più importanti) ha consentito un avanzamento molto più veloce e ha posto le basi per far sì che altre tecnologie potessero svilupparsi perché un nuovo utensile, una nuova metodologia di lavorazione, un nuovo macchinario creano un contesto fertile per ulteriori innovazioni.

L’affermazione più forte di Kelly è che certe tecnologie volevano emergere e sarebbero emerse comunque in un dato momento storico proprio perché il risultato di determinato contesto culturale, sociale, produttivo. Alcune tecnologie erano inevitabili.
Molto interessanti sono gli esempi che l’autore porta per quanto riguarda invenzioni o scoperte che emerse contemporaneamente in luoghi diversi a opera di persone differenti che non lavoravano insieme (ad esempio il telefono o la lampadina) o di quelle che invece sono comparse, scomparse e ricomparse più volte finché non sono diventate sufficientemente mature per trovare la loro giusta collocazione (come esempio recente penso ai tablet che sono comparsi più volte negli ultimi 20-30 anni ma si sono radicati solo recentemente grazie alla maturità tecnologica che hanno raggiunto e, soprattutto, al ventaglio di usi che la Rete consente oggi e che ancora non permetteva soltanto 15 anni fa).

Il libro di Kelly è molto ricco di suggestioni, accompagnate da dati ed esempi, alcune magari non proprio condivisibili se non viste all’interno di questo panorama (come l’idea che la tecnologia così intesa sia dotata di libero arbitrio). Forse pecca un po’ di determinismo ma è sicuramente una lettura stimolante, soprattutto nelle prime parti perché poi negli ultimi capitoli si perde un po’. Kelly ha comunque il merito di non voler fare il profeta dell’evoluzione tecnologica a tutti i costi; egli stesso spiega che alcune tecnologie non le usa e che per certi aspetti preferisce uno stile di vita più semplice.
L’adozione o meno di una tecnologia è comunque sempre una scelta; in differenti gruppi sociali, per ragioni storiche, ambientali e quant’altro, possono essere presenti certe tecnologie e non altre, possono affermarsene alcune senza che si siano prima diffuse quelle precedenti (ad esempio in molte zone africane è per presente il cellulare mentre è molto meno facile trovare linee telefoniche fisse).