Moebius

Moebius

sabato 30 luglio 2005

Il mondo sommerso

Alcuni autori costringono il lettore a tuffarsi in un territorio nuovo, in qualcosa che il lettore non conosceva, qualcosa a cui non aveva mai pensato, o quasi. Autori che fanno riflettere in maniera profonda sulla natura stessa dell’uomo, sulla sua psicologia, sulle relazioni sociali, sulle costruzioni dell’uomo, sul suo modo di porsi nel mondo, e di darvi senso. James G. Ballard, di cui ho parlato più volte, è uno di questi (e un libro come Crash, un capolavoro assoluto, riassume davvero tutto questo).

 

Il mondo sommerso è uno dei primi libri dello scrittore inglese (1962), ed è sicuramente il primo grande libro di successo del più importante esponente della new wave, quel movimento che puntava a sdoganare la fantascienza dai viaggi spaziali e dagli alieni per farne uno strumento per spiegare il mondo contemporaneo, nelle sue ragioni più profonde.

 

L’umanità è ormai ridotta al minimo, dopo che il riscaldamento della Terra ha fatto sì che si sciogliessero le calotte polari, i ghiacciai, e quant’altro, facendo innalzare il livello del mare fino a coprire intere città e regioni. In un mondo che torna sempre più indietro nel tempo, a prima che l’uomo conquistasse il pianeta, con una vegetazione ed una fauna che sembra provenire da ere geologiche precedenti, un gruppo di militari e di ricercatori è immerso da anni nel tentativo di studiare questi cambiamenti, cambiamenti continui che rendono inutile ogni rilevazione precedente. Il biologo Robert Kerans è ormai persuaso che i suoi studi non serviranno a niente, perché la situazione ormai non è più nella mani dell’uomo. Sotto un sole pulsante sempre più caldo, fra lagune e canali creatisi in mezzo ai grattacieli, con le iguane che hanno invaso ogni spazio utile, la vita di Kerans e dei suoi compagni scorre in placida rassegnazione, mentre nelle menti e nella biologia umana si sta verificando un cambiamento antropologico. L’umanità è destinata ad estinguersi, e per chi rimane l’unica strada è quella di risalire l’albero genealogico dell’umanità fino ad un nuovo Adamo e ad una nuova Eva. Non c’è speranza di salvezza, nessun miracolo è possibile.

 

Robert, Beatrice, Bodkin, il colonnello Riggs, il pirata, sciacallo e faccendiere, Strangman, vivono ognuno queste trasformazioni a modo loro e forse nessuno è in grado di capirle. Anzi, sforzarsi di capirle significa perdere ogni orientamento nel mondo, perché la verità conduce alla pazzia. Cosa sia poi la pazzia è tutto da definire.

 

Quella del mondo sommerso è una umanità destinata alla follia, alla follia di un ritorno alle origini, di scontri tribali e di nuove civiltà. Una follia, soprattutto, che spinge a chiedersi cosa c’è dentro l’uomo. Una follia che è un viaggio fra gli «gli scogli di realtà al centro del mare del tempo». È un viaggio che rimette in gioco ogni cosa, da cui forse rinascerà una nuova umanità, forse più adatta al nuovo (vecchio) mondo, e che potrà ricominciare da capo, sempre se sopravviverà, sia chiaro.

 

Leggendo questo libro (la cui prosa raffinata, come quasi sempre con Ballard, richiede una certa dose di riflessione e di impegno) mi sono venuti alla mente due film, due capolavori assoluti, forse i più grandi, entrambi successivi alla pubblicazione de Il mondo sommerso. Questo tema del viaggio, che emerge prepontemente fra le righe, non può che far pensare ad altri due viaggi, entrambi alla ricerca di una verità sull’uomo. Penso al viaggio verso l’infinito di Bowman alla fine di 2001: Odissea nello spazio, viaggio che è il preludio alla rinascita di una nuova umanità, di una nuova civiltà, per quanto spaziale, dal disordine, dalla mancanza di direzione dell’infinito, che alla fine porta al centro dell’uomo stesso (si veda il mio post sulla conferenza di Paolo Fabbri su questo film); e poi penso ad Apocalypse Now, ad un viaggio che non è solo la ricerca di un uomo, e il tentativo di capirlo, ma è un percorso lungo le stesse contraddizioni che guidano sempre le azioni dell’uomo, e alla cui fine, messi di fronte alla verità (qualsiasi essa sia), cerchiamo comunque di uscirne.

 

venerdì 29 luglio 2005

Ma quanto siete ricchi?

Basta! Smettetela di lamentarvi, porca puttana! Sempre lì a dire che non arrivate a fine mese, e le bollette, e l’affitto, e le vacanze sempre più corte, che palle! Lavorate di più, lavativi! Non vi va di fare niente e poi vi lamentate? E poi non è vero che avete tutti ‘sti problemi. Siete ricchi, cavolo.

 

Il Presidente del Consiglio ha affermato ieri che gli italiani sono ricchi perché hanno un numero maggiore che negli altri paesi europei di lavatrici, televisori, frigoriferi, telefonini (ricordate? A scuola dei figli del premier i bimbi ne hanno due a testa: se due indizi fanno una prova…) e «godono di uno standard di vita di altissima qualità, senz’altro superiore a quello degli Stati Uniti». Però, brutta massa di scansafatiche avete un difetto, lavorate poco! Solo 1600 ore l’anno a testa.

 

Ancora state davanti al computer? Sbrigatevi un po’ ad andare al lavoro. Conosco gente che ormai la mattina si alza per andare a bloggare, altro che lavorare.

 

Naturalmente io manco lavoro. Che penserà di me il premier?

 

Dal canto mio mi ritengo ricchissimo: a casa mia ho una lavatrice, due televisori e persino un frigofero, sapete, non tutti ce l'hanno, il frigorifero... e ho pure un computer e una connessione Internet! Cazzo, ero ricco e non lo sapevo. Ma Silvio cos'è, allora? Lasciate stare battute grevi, per favore...

Però esco di classifica perché ho un telefonino vecchio di tre anni e ne vado orgoglioso, che al massimo lo posso fotografare io ma farmi le foto lui...

Voi per cosa siete ricchi? io perché ho casa piena di libri e perché ho cotanto cervello, e poi una carta igienica da 110 e lode.

mercoledì 27 luglio 2005

L'arte di Enki Bilal

Negli ultimi giorni, come anticipato l’altro giorno, ho letto il volume uscito questa settimana con i fumetti di Repubblica (Futuri imperfetti) dedicato ad Enki Bilal, autore nato a Belgrado nel 1951 ed emigrato a Parigi a 10 anni, e considerato oggi uno degli autori più importanti, un vero e proprio artista che con le sue tavole ha rivoluzionato l’immaginario fantascientifico ma non solo, e che si è dedicato anche al cinema, sia come autore, sia in numerose collaborazioni.

 

Raramente mi è capitato di leggere qualcosa di così bello, e non solo a fumetti. Di questo volume in particolare fanno parte le tre storie che compongono la trilogia Nikopol (La fiera degli immortali, La donna trappola, Freddo equatore), scritte negli anni ’80, e la più recente Il sonno del mostro (1998).

Dalla trilogia Nikopol lo stesso Bilal ha tratto il recente film Immortal (ad vitam), basato sui primi due episodi, ma dove scene, situazioni e personaggi sono adattati in modo da mantenere l’idea d’insieme della storia, pur con rilevanti differenze rispetto ai suoi stessi fumetti.

 


 

Ma è un adattamento perfettamente comprensibile e funzionale, esaltando alcuni aspetti, limando altre cose, evidenziando certi caratteri dei personaggi. Film interessante anche dal punto di vista formale, essendo praticamente quasi per intero in digitale, con attori virtuali al fianco dei protagonisti. Anche semplificato nella storia e con alcune modifiche sostanziali (come l’ambientazione a New York nel 2095 e il fatto che Horus scenda sulla Terra con lo scopo di procreare un erede), ne mantiene comunque lo spirito originale.

 

La trilogia è basata sulla apparizione sulla Parigi del 2023 di una astronave a forma di piramide. Questa contiene tutto il pantheon delle divinità egizie, Anubis, dalla testa di sciacallo, Bastet, dalla testa di gatto, ecc, intente a giocare a Monopoli, forse metafora di come funzionano quaggiù le cose. Horus, dalla testa di falco, è sceso sulla Terra, per una sete di ribellione e di conoscenza, deciso ad abitare un corpo umano che lo possa aiutare a scoprire nuove cose e a sentire tutto ciò di cui la sua immortalità lo priva. Quel corpo è quello di Nikopol, dissidente politico del regime fascista in carica mandato in ibernazione nello spazio e precipitato poi di nuovo sulla Terra. Nel secondo episodio appare Jill, la bellissima ragazza dai capelli azzurri e dalla pelle bianchissima, dalle labbra e dai capezzoli azzurri, e dalle lacrime, naturalmente, azzurre.

 


 


 


 

Jill è un personaggio misterioso e affascinante, che spedisce i suoi articoli indietro nel tempo, descrivendo un mondo popolato da alieni, in cui ad una dittatura nera ne segue una rossa.

I protagonisti di queste storie sono sempre distaccati dalla realtà, alienati in qualche modo da una società totalitaria che limita l’individuo, e dietro le loro vicende trapela soprattutto disperazione, insensatezza, rassegnazione a non capire niente di noi stessi, della realtà in cui viviamo, della nostra stessa esistenza. L’unico che cerca di capire qualcosa, e forse alla fine ci riesce davvero è Horus, imprigionato dalla dittatura dell’immortalità.

 


 

Da un punto di vista stilistico fra i tre episodi si nota una progressiva crescita artistica dell’autore, sia nel disegno e nella colorazione delle tavole, sia da un punto di vista letterario. Sia dal punto di vista grafico che da quello dei contenuti, trapela l’idea, fra una storia e l’altra, di incompiutezza, di mancanza di senso della realtà, di una ricercata imprecisione, che da luogo a tavole bellissime e ricche di particolari anche soltanto da un punto di vista estetico.

 

Nella quarta storia dell’albo, Il sonno del mostro, questo sviluppo stilistico diventa ancora più evidente, con tavole sempre più ricercate e raffinate, che giocano molto con i colori, che si fondono e si sfumano, con toni pastello di blu, di grigi, di bianchi e di rossi soprattutto, e con figure prive di linee di contorno, con un effetto sfumato. Questa quarta storia, che non c’entra niente con la trilogia Nikopol, è secondo me, la più bella del volume, sia perché è evidentemente più matura sia perché i contenuti diventano davvero importanti.

Nike, Layla e Amir sono i protagonisti della storia (soprattutto il primo), e agiscono in un mondo dove una organizzazione mafioso-terroristica, che ha come base ideologica tutte e tre le grandi religioni monoteiste (in un mondo quasi ateo), è la più grande minaccia per la libertà delle nazioni e dei popoli.


Nike, Layla e Amir sono loro malgrado coinvolti in giochi di potere più grandi di loro, incomprensibili e che è meglio rinunciare a comprendere, se non per il fatto che i loro destini sono intrecciati, e lo sono sempre stati fin dalla loro nascita, 33 anni prima, nel 1993, in un ospedale di Sarajevo, durante i bombardamenti serbi. E questo riferimento alla storia dei drammi dei Balcani dove è nato Bilal, rende la storia stranamente poetica, sospesa fra passato e futuro, dove l’unica costante è l’insensata distruzione che gli uomini stessi operano tra loro. E con leggerezza Bilal unisce il 1993 con il 2026, creando una sorta di parallelismo sia con le parole sia, e soprattutto, direi, con le immagini.

 


 

Visto che è ancora in edicola spero di avervi invogliato ad andare a spendere questi 6, 90 euro…

 

Questo è un bel sito per saperne di più di Bilal, e soprattutto per vedere altre tavole!

 

Un blog più letto dei nostri...

Ho letto qui, su Repubblica.it, una notizia veramente interessante per noi blogger. Stephanie Klein è una manager newyorkese di 29 anni e, come molti di noi, ha un blog (http://stephanieklein.blogs.com), solo che a differenza nostra il suo è, forse, il blog-diario più letto al mondo (in base ad una speciale classifica, fra 13 milioni di blog, il suo si piazza, per rilevanza di visite, circa al 2000esimo posto).

Stephanie è intelligente, simpatica, alla moda, single, relativamente ricca, ha una bella casa e racconta al mondo intero le sue avventure di single: incontri, sesso (pare senza censure), locali alla moda, cibo, amiche. Vi ricorda qualcosa? Ovviamente, Sex and the city. Stephanie è la versione on-line delle protagoniste del telefilm ed ha un successo spaventoso: la gente la ferma per strada, sta per pubblicare un libro e per approdare in tv. C’è chi dichiara di essere diventato dipendente dal suo blog, dalle sue avventure, dai suoi incontri.

 

Da maschio, mi chiedo: se è così nota, e pare che lo sia davvero in America, come si possono sentire i suoi poveri partner che, pure in un sicuro (spero) anonimato, vengono di volta in volta messi in piazza?

 

Altra considerazione, più sociologica e comunicativa: che ruolo giocano ormai i blog nella nostra vita? Gli utenti del blog di Stephanie lo leggono come se fosse una soap opera, un telefilm, o semplicemente storie di cronaca vera. Il web sta acquisendo un ruolo sempre più importante nelle nostre vite per tanti motivi, e forse segna anche un distacco da media più tradizionali, avvantaggiato in questo caso dalla sensazione di saltare le mediazioni e di assistere (o di leggere) alla vita vera di una persona, meglio che in un reality show, e dall’interattività permessa da uno strumento come un blog, dalla possibilità di entrare in contatto con la persona in questione, fosse anche solo per lasciare un commento, ma anche il fatto di entrare direttamente “in casa”. Si crea un senso di partecipazione, di familiarità, l’idea che non ci sia niente altro fra “noi” e “lei”, se non lo schermo di un computer (e magari qualcuno sogna pure, a ragione, di incontrarla e di entrare in qualche modo nel suo blog, di diventare parte integrante di quelle storie). Sempre meglio, forse, di un Grande fratello o di una soap, no?

 

Certo, purché non sia tutta fiction…

martedì 26 luglio 2005

Ritorno

Rieccomi qua. Per l’ennesima volta. Voglia di ritornare a scrivere qualche cazzata, come sempre. Ma non aspettatevi troppo però, eh? Non aspettatevi post entusiasmanti, e non aspettatevi che sarò sui vostri blog giorno e notte. Ritorno di basso profilo.

 

Non è successo niente di clamoroso in queste due e più settimane di assenza dalla blogosfera. Niente che valga la pena di raccontare, e forse è un dramma, questa assenza di fatti da raccontare. Mi sono immerso in quello che in questo blog chiamo sempre il mio mondo immaginario. Ho visto qualche film, ho letto qualche libro e qualche fumetto. Mi sono distratto il più possibile, cioè poco, perché la testa va sempre dove vuole lei, e non la smetto di pensare. Almeno penso, c’è chi non lo fa mai. Però quando penso spesso mi lascio andare a pensieri negativi, mi abbatto. A volte però ho voglia di respirare, di riemergere dal pelo dell’acqua e di tirare una bella boccata d’aria. E poi rituffarmi, ma con un altro spirito. Vedremo.

 

Intanto vi aggiorno sulle mie letture… I libri potete vederli nella colonna a sinistra… In particolare Evangelisti, con Il corpo e il sangue di Eymerich: sempre avvincenti le avventure dell’inquisitore Eymerich (vera chicca la citazione finale di uno dei racconti più noti e più belli di Edgar Allan Poe), a cavallo fra il 14° secolo e il 20°, fra inquisizione e Ku Klux Klan, ricerca genetica, guerre e politica (interessante il fatto che verso la fine del libro appaiano personaggi come Colin Powell e Paul Wolfowitz, che quando è stato scritto il libro non avevano ancora la notorietà mondiale che hanno conquistato negli ultimi anni). Poi da non dimenticare un super-classico della fantascienza hard, come Heinlein, che con il suo Cittadino della galassia (libro del 1957) ha realizzato uno dei migliori romanzi per ragazzi di sempre ma che si lascia leggere anche da un adulto: le avventure di un giovane orfano che diventa prima schiavo e poi molto altro… avventure che piacerebbero, anzi sono sicuro che piacciono, anche ad uno come Lucas, ci uscirebbe fuori un bel film sullo stile di Guerre stellari, basterebbe l’aggiunta di qualche scena di azione in più…

 

Poi mi sono dedicato alla lettura di un po’ di fumetti, per riempire ancora di più il mio mondo immaginario… di immaginario, appunto. E allora ho proceduto alla lettura del volume di Repubblica dedicato a Blueberry, il fumetto western dei francesi Jean Michel Charlier e di Jean Giraud, alias Moebius nella sue opere fantastiche (insomma, l’autore dell’illustrazione del mio template). Altro che Tex, niente a che spartire, è molto più raffinato; le storie sono avvincenti davvero e le tavole di Gir sono di una bellezza incredibile, con inquadrature che starebbero bene in un film. Poi, visto che mi erano piaciuti i fumetti ho visto pure il film di Jan Kounen, con Vincent Cassel (e con il tarantiniano Micheal Madsen e Juliette Lewis), ora nelle sale, e devo dire che l’ho trovato più che discreto, davvero: non so se è “liberamente tratto” o se è basato comunque su qualche storia in particolare di Mike Blueberry, forse è leggermente troppo cervellotico e volutamente allucinato (c’è un sacco di peyote), se proprio vogliamo trovarci dei difetti.

Poi la lettura dei volumi di Frank Miller che avevo detto di aver comprato prima della “pausa”.

E, tuttora, sto leggendo il volume di Enki Bilal uscito sempre con Repubblica (attualmente in edicola). Enki Bilal è uno degli autori più versatili che ci siano in circolazione, serbo di nascita e francese d’adozione; ha rivoluzionato la fantascienza a fumetti e non solo (pare che Ridley Scott per le ambientazioni di Blade Runner si sia ispirato alle sue tavole), e si è dedicato anche al cinema, in particolare il suo terzo film, Immortal (ad vitam), uscito la scorsa stagione, l’ho trovato veramente bello, molto particolare, ispirato alla Trilogia Nikopol che trovate nel volume in questione (ma liberamente adattata per lo schermo: libero di fare quello che vuole con le sue storie). Di Bilal mi sa che vi parlerò più dettagliatamente.

 

Infine chiudo con una nota sugli acquisti di libri che si sono accumulati negli ultimi tempi, e che vanno a formare una pila un po’ più grande. Intanto L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon, il suo capolavoro, a quanto si dice, e soprattutto uno dei romanzi più ricchi e complessi degli ultimi 30 anni: approfittando di qualche sconto ho deciso di non farmi intimorire dalla mole.

Poi il romanzo scritto a quattro mani, un capitolo per uno, dal grande scrittore ispano-messicano Paco Ignacio Taibo II e dal Subcomandante Marcos, Morti scomodi. Si avete capito bene, il Subocmandante Marcos. Tra l’altro il ricavato dei diritti d’autore è devoluto direttamente ad una organizzazione umanitaria operante in Chiapas. Questo romanzo si annuncia un interessante giallo politico, che inizia, dando retta alla quarta, con l’apparizione di Pepe Carvalho a Città del Messico, sicuramente un omaggio di Taibo II a Manuel Vazquez Montalbàn e al suo personaggio più famoso.

lunedì 11 luglio 2005

Attenti, non tutto è ciò che sembra...

Interrompo la pausa dal blog per parlarvi di un bel libro, non vi farà male.

 

Un bel giorno in un ospedale di Detroit viene al mondo Calliope, una paffuta bambina di origine greca (i nonni sono venuti in America tanti anni prima, dopo che dovettero abbandonare la loro terra natia, vicino Smirne, perché i Turchi ne presero possesso). Questa bambina era veramente bella, aveva tutto quello che deve avere una bimba, con un bel ricciolo rosa fra le gambe. Il problema è che oltre a quello, nascosto dove non si poteva vedere, c’era anche altro.

Eh sì, perché Callie è un ermafrodito, cosa veramente rara ma che ogni tanto accade, soprattutto fra chi proviene da piccoli villaggi dove ci sposa spesso e volentieri fra parenti. Quindi a un certo punto della sua vita Calliope scopre di essere in realtà Cal, e la bambina diventa, nella pubertà un maschio, quello che in realtà, geneticamente, è sempre stato. Solo con i genitali esterni femminili e qualcosa che spunta...

 

Ok, credo di aver chiarito abbastanza bene il punto di partenza di questo libro. Tanto non vi ho svelato nessun mistero. Il libro di Jeffrey Eugenides (vero talento letterario che dopo dieci anni da Le vergini suicide ha pubblicato il suo secondo romanzo) è un libro che vi stupirà raccontandovi non solo la trasformazione di Calliope in Cal ma le vicende della sua famiglia, che partono dai nonni Desdemona e Lefty, nel loro piccolo villaggio, di come i due si innamorano e di come decidono di sposarsi anche se fratelli. Allora un piccolo gene, che passa di generazione in generazione ma resta recessivo si sveglia, senza che i due, poveri contadini montanari, possano saperlo.

Questa è una storia di trasformazioni continue: la storia di Cal/Calliope è solo la conclusione della trasformazione di una famiglia greca in americana, della trasformazione di una città, di un’epoca, di un’intera nazione, dei rapporti interrazziali, della ribellione dei figli verso i padri negli anni ’60 (e non potrebbe essere una ribellione anche quella di Cal, in fondo? Una ribellione alla normalità della natura).

 

Middlesex è scritto in maniera da rendere le vicende della famiglia Stephanides avvincenti, di trasformare una storia di immigrazione e di successo in una riflessione sulla vita e sulla morte (che incombono sempre, e i greci con la loro tradizione millenaria lo sanno bene). Le trasformazioni psicologiche e biologiche di Calliope nel suo percorso di scoperta di sé spingono a porsi domande sulla natura umana, sulla psicologia che si forma da bambini quando si diventa maschi o femmine per convenzione sociale (nel caso del protagonista sicuramente), quando si entra a far parte di una società con le sue regole, e qualcosa di inaspettato e di incontrollabile le sconvolge. Al centro c’è l’uomo, inteso come essere umano, la macchina più complicata che c’è, con le sue pulsioni, i suoi amori, i sentimenti. Sullo sfondo scorre la storia, e chissà se sia più importante la grande storia o quella personale, individuale, che diventa esempio di come ognuno cerca sempre la sua strada, cerca sempre di capire la sua natura, quello che accade a se stessi.

 

Middlesex alla fine è uno di quei libri che lasceranno il segno nella memoria, scritto benissimo, pieno di trovate narrative e perfino di colpi di scena (alcuni annunciati, ovviamente). C’è un po’ un tono da tragedia greca dietro, ma c’è anche commedia: le due facce della stessa maschera che permeano la vita di tutti. Certo, questa in particolare di storia è un pochino più rara, ma a questo servono i bei libri, a raccontare storie che nel loro essere estranee alla vita della maggior parte delle persone che li leggono alla fine parlano comunque di noi.

venerdì 8 luglio 2005

Di cose di cui parlare oggi ce ne sarebbero. Vorrei avere qualcosa di intelligente da dire dopo l'attentato di Londra, ma vorrei evitare anche di ripetermi, dopo che su questo blog ho espresso spesso quello che penso del terrorismo e del presunto scontro delle civiltà (sottolineo presunto), e quindi conoscete abbastanza bene le mie idee, almeno che bazzicava di qua prima che cancellassi il blog a febbraio (altrimenti vi avrei mandato indietro a leggere...).


Mettiamoci che in questo periodo sto sentendo l'ispirazione a scrivere qualche bel post venire via. Quindi penso che staccherò la spina (del telefono) per un po', anche perché ogni tanto c'è bisogno di disintossicarsi, come consiglia spesso il dottor Omicu del mio amico Militante. Ci vediamo fra qualche giorno!

giovedì 7 luglio 2005

Ieri, anzi quasi stamattina, direi, dopo una giornata in giro me ne sono tornato a casa con un bel bottino...




martedì 5 luglio 2005

Andiamo ad ammazzare un po' di alieni!

Ragazzi, si va a vedere La guerra dei mondi. Sìììì! Dai, Spielberg è sempre Spielberg, sicuramente sarà un bel film, magari non un capolavoro, ma pieno di effetto speciali, di azione e di suspence. Sì, però qui Spielberg ha fatto il film senza buoni sentimenti, niente E.T. o Incontri ravvicinati, qui gli alieni sono cattivissimi e metteranno paura. Ok, andiamo a vederlo, dai, ho voglia di vedere questi crudelissimi alieni. Ho voglia di alieni.

 


 

Non l’avessi mai fatto.

 

È una cagata pazzesca! Come disse il poeta. Il film ha soprattutto un pregio, non interrompe la conversazione e permette di provarci con quella biondina a cui battete i pezzi da settimane, che sarà così annoiata da starvi persino ad ascoltare (e se non lo sarà, annoiata, lasciate perdere voi, perché è per farsi piacere ‘sto film ci vuole una dose massiccia di droghe allucinogene). Per il resto, poche altre volte ho buttato i soldi così al cinema (imbattibile resta Pearl Harbour, a mio avviso, ma  lì neanche pagai il biglietto) per un film senza né capo né coda, con una sceneggiatura ridicola, senza la minima tensione, con la convinzione che tanto ‘sti alieni moriranno in maniera cretina e ignominiosa, come è.

 


 

Tom Cruise è un padre separato che ospita i figli per il week-end. Lui è un uomo rozzo, un po’ duro, che non ha il rispetto del figlio adolescente e che la figlia piccola tratta con rispetto solo per educazione. Ma ecco che una strana tempesta di fulmini risveglia nel sottosuolo dell’intero pianeta delle enormi macchine a tre gambe (i tripodi) lasciate lì da una civiltà aliena miliardi di anni fa, che ora ha deciso di fare guerra agli umani, sapete per che? Per invidia! Ora io non ho letto il libro di H.G. Wells, ma visto che si tratta di un libro di un centinaio di anni fa, questa gliela passerei: ma il buon Spielberg poteva o modificare alcuni passaggi del libro per renderlo più attuale, e non limitarsi ad ambientarlo nel 21° secolo, oppure, se è frutto del suo cervello, beh, significa che sta lentamente rincoglionendo.

Naturalmente ogni 3 secondi c’è qualcuno che dice “cazzo, i terroristi”, così fino a metà film, con le bandiere americane che sventolano un po’ ovunque.

 

Papà Cruise allora comincia a correre come un padre impazzito che vuole salvare i figli, con il maschio che ogni volta che vede un convoglio di militari cerca di arruolarsi seduta stante (perché ci hanno attaccato e noi dobbiamo rispondere, dobbiamo fargli un culo così!) e la figlia che ha un attacco di panico ogni tre secondi, e probabilmente a 15 anni sarà completamente inebetita dagli psicofarmaci. Scappano con l’unica auto funzionante di New York (perché ogni tecnologia non funge più, almeno dove sono spuntati i tripodi, ma quella macchina lì funziona, ovvio), mentre i tripodoni sparano raggi laser che disintegrano immediatamente gli esseri umani, e non fanno altro… ma dove cazzo scappano? Se hanno invaso la Terra come fai tu a salvarti? Inutile dire che papà Cruise schiva tutti i raggi laser.

 

Una sceneggiatura così fragile è difficile da vedere, da rendere inutili i begli effetti speciali e qualche trovata tecnica di Spielberg, che è fin troppo lezioso, cazzo, lui e le inquadrature attraverso gli specchietti retrovisori delle auto, per non parlare della videocamera che cade a terra, e del display a tutto schermo che ci fa vedere i tripodi che attaccano. Insomma ogni tanto, fra una smorfia impercettibile di Cruise e un pianto di Dakota Fanning (la versione femminile del ragazzino de Il sesto senso, visto che ormai sta un po’ dappertutto), e a Tim Robbins nel ruolo più ridicolo di tutta la sua carriera, assistiamo a Spielberg che fa lo sborone ma senza dire niente e senza trasmettere nessuna emozione. Roba che un film come Signs è di grosso migliore, lì almeno che gli alieni fossero stupidi è dichiarato (muoiono a contatto con l’acqua come la strega del mago di Oz) e sono solo il pretesto per portare avanti il film, che in qualche modo si lascia guardare.

 

Ora, alla fine, rimane un interrogativo, ma perché questa civiltà aliena in grado di costruire macchine del genere e di distruggere l’umanità con relativa poca fatica, dovrebbe piazzare queste macchine quando l’umanità nemmeno si è fatta vedere sulla Terra? Perché questo costosissimo investimento a lungo termine che poi sarebbe risultato fallimentare, peggio dei bond Parmalat? Alla fine, la conclusione, dopo accesa discussione, è stata che il Ministero dell’Invasione degli alieni aveva da assegnare questo mega-appalto truccato, con grosse tangenti in ballo e con l’influenza di un po’ di mafia aliena. Mi sa che questo soggetto darebbe luogo a un film molto ma molto più interessante…

lunedì 4 luglio 2005

La mente altrove

Stamattina mi sono svegliato, sono uscito di casa e ho respirato qualcosa di diverso. L’aria non aveva quel sottile aroma di benzene, piombo e polvere sottili a cui chi vive in una grande città proprio non potrebbe mai rinunciare. Sentivo gli uccellini, c’era un profumo di fiori, sottili raggi di luce di spandevano tutt’intorno… ma forse stavo sognando.

Infatti poco dopo mi sono svegliato di nuovo, agitato, preda degli incubi (perché un sogno così evidentemente è un incubo, la premessa a qualche tragedia cosmica, come in ogni buon film dell’orrore che si rispetti) con la testa come se fosse stata sbattuta in un frullatore, chiusa ermeticamente e ripetutamente costretta a fare giro-giro-tondo, come su una giostra. Ma senza cavalli, però, perché il cavallo ero io. Neanche mi ricordo quella mora  fantastica che mi sono portato a letto. Dio, ieri sera dovevo bere di meno. Tre martini sopra a quelle quattro o cinque birre, per non parlare di quel vino che andava giù che era una bellezza, forse era un po’ troppo. Cazzo, sto a pezzi, e non so nemmeno come e dove vada infilato quest’affare qui, che mi sono ritrovato in mano ma proprio non so a cosa mi serva. Ah, quello era il mio uccello. È un riflesso automatico: apri gli occhi, erezione, sega mattutina. Da più di 20 anni, ogni mattina, e si sa che le tradizioni vanno rispettate. Solo che a volte mi ritrovo un po’ spaesato, come quando bevo tre martini, quattro o cinque birre e bevo un sacco di vino che va giù che è una bellezza.

Acquistata un po’ di lucidità in più, quella sufficiente a capire a cosa ci si fa con quel coso, finisco le mie mansioni mattutine, e mi alzo dal letto. Solo che mica è facile ricordarsi la parte giusta da cui scendere. Quale piede va poggiato a terra prima? Alzarsi col piede sbagliato manda a puttane l’intera giornata, soprattutto quando non si ha un cazzo da fare e la decisione più importante da prendere è se mettere i calzini blu o quelli grigi. L’umore con cui ci si alza è fondamentale, soprattutto se la serata è finita bene, come credo sia andata, a meno che non abbia cominciato a russare prima di gettarmi dall’armadio vestito da Bat-man. La cosa, tra l’altro, spiegherebbe anche perché non l’ho ritrovata nel letto stamattina: mi sa che non ci è entrata proprio, nel mio letto. E io non sono entrato da nessuna parte, mi pare chiaro. Ecco perché non ricordavo a cosa serve quel coso: non ha fatto neanche lo sforzo di aiutarmi a star sveglio, lo stronzo. Vatti a fidare degli amici.

Comunque, dicevo, l’umore con cui ci si esce dal letto la mattina è fondamentale, ancora di più se ci si è dimenticati come si scopa, la sera prima. Basta, metto giù il primo piede che riesco a connettere a quella polpetta gelatinosa che è il mio cervello e non ci penso più, e che poi l’altro, se è invidioso, che si venga pure a lamentare.

Non devo stare tanto bene però, se una volta sceso dal letto mi ritrovo infilato in un cannone. Nella bocca di un cannone. No, non è un cannone, ma è l’enorme bocca della canna di una pistola, una di quelle che si vedono nei film western, anzi no, una 44 magnum, come quella di Clint Eastwood. Una gigantesca, mastodontica, mostruosa, 44 magnum e il mio bel culo rosa vi sta ficcato dentro. Un clic. Il cane che si alza. Un altro clic, un po’ più duro, un po’ più sordo. Il grilletto che viene tirato. Un bum, anzi che dico, un tuono, il tuono dell’ira di Giove pluvio. Un vortice d’aria dietro al mio culo comincia a solleticarmi le chiappe, e devo dire che è pure piacevole. Peccato che duri meno di un centesimo di secondo, perché poi inizia a bruciare. E so bene cos’è. E a quel punto volo, con i peli del culo bruciati, a cavallo di quella enorme supposta uscita dal ferro di Dio, perché se devo pensare al dito indice che ha tirato quel grilletto, quello è il dito indice di Dio che spara per punire l’umanità di tutti i suoi peccati.

Volo su quel proiettile, con una mano agito il mio cappello da cowboy, mentre con l’altra abbraccio stretto il metallo, il metallo rovente di una pallottola appena eiaculata. Sotto di me scorre il mondo intero, vedo valli, pianure, colline, intere catene montuose,  fiumi e laghi, e allora comincio a scendere e lentamente quel panorama si fa più chiaro. Mai colline, fiumi e montagne sono stati più dolci. Quelle montagne sono i suoi seni. I laghi i suoi occhi azzurri. Quelle colline i fianchi e la pancia. Quanta alla valle e al fiume, usate la fantasia. Finalmente sono sulla mia mora, la sto cavalcando come non ho mai fatto prima, la giro e la prendo da dietro, e lei urla e gode. E finalmente mi ricordo bene a cosa serve quell’affare.

 

domenica 3 luglio 2005

Gli Schwartz

Questo libro di Matthew Sharpe è un libro strano, strano per il modo in cui l’ho letto e per l’effetto che mi ha fatto. All’inizio non partiva proprio, scorreva piatto, non mi piaceva, poi piano piano, complice l’ozio estivo e una domenica in casa passata senza fare niente, se non leggere, appunto, arrivato quasi alla fine devo dire che la seconda parte del libro invece è diversa. Non so, forse conta anche lo spirito con cui si legge un libro: magari lo si inizia con grandi aspettative perché se ne è sentito parlare bene e poi si è delusi; poi ci si fa l’idea che il libro non piaccia, che non sia un granché, e allora se si continua a leggere si scopre che non è male.

 

Gli Schwartz sono una famiglia strana e normalissima allo stesso tempo. Genitori divorziati, figli adolescenti in crisi esistenziale, che si manifesta nella spigolosità del carattere di Chris, alla ricerca disperata della prima esperienza sessuale, e nella crisi di identità di sua sorella Cathy, ebrea che vuole seguire a tutti i costi una strada di virtù e diventare cattolica, solo per riempire e dare significato alla sua vita, ma poi troverà altro, a dare significato.

La madre, Lila, è una donna egoista, che considera la famiglia qualcosa di oppressivo e che passa da un’amante all’altro, dopo che ha lasciato il marito. Bernie, il padre, è un uomo forse mediocre, depresso per essere stato lasciato e che un giorno entra in coma, e ne uscirà con la capacità espressiva di un bambino che deve imparare di nuovo tutto. In questa famiglia entrano ed escono altri personaggi, che finiscono in un modo o nell’altro per ruotare intorno alle vicende, alle nevrosi e alle fissazioni di questa strana e normalissima famiglia (sì, lo so, l’ho già detto), in cui alla fine, volenti o nolenti i ragazzini crescono e a modo loro pure Bernie e Lila.

 

È un libro che, per quello che ho scritto all’inizio, non saprei se consigliare o no, fate voi. Alla fine facendo una media posso dire che il mio ago della bilancia propende leggermente di più verso il “piace”. È un libro comunque ironico, che riflette sulla famiglia come nucleo familiare che non è più un nucleo, ma forse una serie di collegamenti su cui si inseriscono altre persone. Alcune cose sono davvero divertenti, come le fasi della riabilitazione di Bernie ad opera di Chris, che si sostituisce alla logopedista ninfomane. È un libro che va un po’ a salti, almeno nella mia impressione e per i miei gusti, vorrebbe essere ironico ma spesso è troppo serio, e quando vorrebbe essere serio diventa invece sarcasticamente buffo (chissà che vuol dire, però mi è venuta così).

sabato 2 luglio 2005

Avete presente questo film qui? Ecco mi sento tanto come Jim Carrey, cancellato. Il film si basa tutto sulla possibilità di cancellare porzioni di memoria dalla mente. Sapete basta molto meno, se si ha un blog; a volte basta cancellare un paio di post. Cancellato.

venerdì 1 luglio 2005

aggiornamento sul colloquio

Dopo le ricerche in rete era una sòla: l'azienda produce aspirapolvere, e il fatto che non lo dicono chiaramente la dice lunga sul fatto che sia una sòla. dal loro sito internet (solo quello americano però, perché non mi è riuscito di trovare un sito di xxxitalia) dicono che offrono grandi opportunità di lavoro e carriera, però è chiaro come rappresentanti.

Realtà e sogno

Voglio parlarvi di due cose, della realtà e del sogno. Niente di apocalittico, o di dickiano, ma della mia realtà e del mio sogno di ieri e di stanotte.

 

Ieri pomeriggio ho fatto il mio primo colloquio di lavoro dopo la laurea. Devo dire che è arrivato in modo del tutto casuale, senza che io abbia risposto a nessun annuncio. Semplicemente l’azienda americana XXX (devo accertarmi se esiste davvero) essendo in espansione cerca personale un po’ dappertutto e fa chiamate a tappeto su tutta Roma chiedendo “c’è qualcuno che cerca lavoro?”. Tra l’altro mantengono pure l’anonimato, nel senso che danno un nome di copertura, con l’iniziale dell’azienda e poi “project”.

Sinceramente ad una domanda così il dubbio che sia una gran sòla c’è: una azienda seria cerca personale così? Soprattutto un’azienda che deve offrire buoni posti di lavoro e non posti, che so, come rappresentante? Quindi il rischio bufala c’è, secondo me. Tanto non mi costava niente andare, quindi sono andato.

La cosa interessante è che ancora non ho capito cosa cavolo faccia questa società: mi hanno detto che si occupa di import-export di manufatti hardware prodotti in America. Che tipo di manufatto non mi è dato sapere: mi informerò facendo una ricerca in rete oggi.

Vado per ordine. Quello di ieri era solo un colloquio informativo, mi è stato detto; nel senso che loro mi informavano sulla società e sul lavoro e io li informavo su di me. Sono andato ad Ostia, dove si teneva il colloquio. In tutto sono stato 10 minuti, fra il tempo di compilare un modulo, due minuti di attesa e un piccolo colloquio, per l’appunto informativo, in cui mi è stato spiegato più o meno qualcosa dell’azienda (che non ho capito che fa) e il tipo di lavoro che avrebbero potuto offrirmi (paroloni come manager, gestione del personale, roba così: ma niente di concreto, il che puzza).

La cosa interessante è che per fare buona impressione ti dicono subito che sono fra gli sponsor della Roma e dell’Inter e se guardi il post-partita in tv vedrai il loro marchio sul tabellone delle interviste, e fanno anche la pubblicità nello stadio: per indorarmi la pillola mi ha fatto praticamente la telecronaca della partita Roma-Livorno, finita tre a zero per la mia squadra, in cui Totti, quando ha segnato, è andato a festeggiare proprio davanti al loro catellone pubblicitario (mi chiedo: quella partita, a febbraio, è stata l’ultima partita vinta dalla Roma all’Olimpico in quest’anno balordo. In tutte quelle che ha perso e in cui festeggiavano gli altri non c’era il loro cartellone?).

A parte queste amenità, me la sono cavata rispondendo a domande del tipo “lei è una persona ambiziosa?” (ambiziosa, non arrivista, badate bene); “ha esperienze di lavoro o studio di gruppo?” (lavoro non sesso, badate bene); “cosa può dare lei, PhilipDick, a questa azienda?” (boh, basta che mi date voi lo stipendio).

Dovrebbero farmi sapere oggi sia se sono stato ammesso al secondo colloquio sia se non sono stato ammesso. Sinceramente sono pessimista non solo sull’esito del colloquio ma anche sul fatto che richiamino in ogni caso. Staremo a vedere.

 

Invece stanotte ho fatto un sogno assurdo, anzi più di uno, o forse era uno a episodi. Come al solito in questi casi appena sveglio poi il sogno svanisce, quindi non lo ricordo nel dettaglio. Ricordo però alcune cose: ero in un cinema e all’uscita vedevo un mio vecchio compagno delle scuole elementari, che non vedo, appunto, dalle elementari, e come sia entrato nei miei sogni non è dato sapere. Ero con un mio amico che invece, nel sogno, lo aveva avuto come compagno alle medie. Lo chiamiamo e lui ci guarda sprezzante e se ne va, voltandoci le spalle. Poi ho sognato anche un inseguimento e una fuga (nostra) perché il tipo ci aveva mandato dietro una squadra di picchiatori, ma questo è solo perché al mio subconscio piacciono i sogni movimentati.

Dopo altre cose che non ricordo, mi ritrovavo vicino casa mia (che vi ho fatto vedere nelle foto dal satellite giorni fa) che passeggiavo ed incontravo tre mie amiche, ex compagne di scuola, di cui una, F. è tutt’ora una mia cara amica, un’altra F. è parecchio che non la vedo, e poi c’era M., che non vedevo ma sapevo che c’era (sapete, quando nei sogni fate la parte del narratore onnisciente). Ebbene, anche loro le chiamo, mi sbraccio, si incrociano anche i nostri sguardi, e tirano dritto, lasciandomi di sasso, con solo la prima F. che si gira verso di me e mi lancia uno sguardo affettuoso che diceva “mi spiace, non sai quanto mi spiace”.

 

E questo è il mio sogno, evitato da tutti. Sarà che nella vita reale una persona a cui tengo mi evita e ha deciso che non devo più far parte della sua vita, e capisco pure la sua decisione. Mi sa dire qualcosa, Prof. Freud?