Moebius

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domenica 18 novembre 2012

@Zerocalcare secondo me

Una delle scoperte più piacevoli dell’ultimo anno (in generale, non certo mia visto il successo) è Zerocalcare, fumettista romano che dal giro dei centri sociali e delle piccole riviste di settore è progressivamente emerso pubblicando i suoi lavori anche su XL di Repubblica (ora non più) e da un po’ di tempo su Internazionale.
Il successo vero, credo, è arrivato col suo blog, in cui settimanalmente ha proposto una serie di storielle con lui protagonista alle prese con sua madre, i suoi amici, lo studente al quale fa ripetizioni, Trenitaja, il mondo del lavoro. Il passaparola su Facebook e sugli altri social network ha sicuramente avuto un impatto enorme sulla sua notorietà (insieme al sostegno ricevuto da un nome ormai affermato come quello di Makkox), ed è proprio a forza di link sparsi in giro - oltre che un paio di numeri di Canemucco, la vecchia rivista di Makkox, che acquistai a Romics - che un annetto fa io stesso ho iniziato a conoscere il suo sito.

E a ridere come un idiota davanti al pc ogni qualvolta usciva un nuovo episodio.

Siamo già al secondo libro, Un polpo alla gola, che sta riscuotendo un enorme successo dopo un altro best-seller come La profezia dell’armadillo (inizialmente autoprodotto e messo in vendita online e nel circuito delle iniziative legate a piccole librerie, fiere, centri sociali, ecc.) entrambi ora disponibili nelle edizioni di Bao Publishing.
Quello che amo di Calcare (del suo lavoro, ovviamente) è una vena comica che si basa su due aspetti fondamentali: la vita quotidiana di un trentenne medio (precario, con una madre apprensiva, con una serie di amici chi più chi meno altrettanto sfigati, preda di paranoie e seghe mentali) e la rielaborazione dell’immaginario pop di chiunque sia cresciuto dagli anni ’80 in poi. Così i personaggi di cartoon, film, videogiochi diventano di volta in volta personificazioni di stereotipi, idee, luoghi comuni, dubbi e incertezze che frullano nella testa di ognuno di noi. Una sorta di pantheon comune a una intera generazione.

Il risultato, per me, oltre ad essere spesso esilarante, è quello di ritrovarmi e riconoscermi in molte delle cose che racconta ZC. La sua forza sta proprio nei contenuti, nello stile del racconto e nei riferimenti; riuscire a muoversi in questo universo di citazioni (un po’ come fa Leo Ortolani con Rat-Man) o meno è sicuramente un requisito fondamentale per amare i suoi fumetti e non perdere buona parte del divertimento (io per esempio rido di più quando cita Star Wars, per mia deviazione personale). Rispetto a Rat-Man però i fumetti di ZC sono meno referenziali e consentono comunque una chiave di lettura non esclusivamente legata al gioco delle citazioni.

Gli episodi pubblicati di volta in volta sul blog sono spesso legati all’attualità (intesa anche come attualità della vita dell’autore/protagonista) e prendono spunto da cose con le quali tutti ci siamo probabilmente imbattuti quotidianamente; la brevità di queste storielle fa si che il “climax” arrivi in breve e l’effetto comico scatti subito, giocando molto con l’ironia ( e l’auto-ironia, visto che l’autore ci invita a ridere non solo di lui ma anche di noi stessi, delle nostre fissazioni e dei nostri problemi, veri o presunti che siano).
I due libri hanno un tono diverso, pur rispettando sempre gli elementi principali del suo stile; si tratta di storie che affrontano però un tema preciso, quello della crescita e dei momenti di passaggio dall’infanzia all’adolescenza  e poi all’età adulta, sempre con ZC e i suoi amici protagonisti. I momenti in cui ridere non mancano ma c’è una sorta di malinconia di fondo e i tempi sono sicuramente diversi. More about Un polpo alla gola
Dei due, anche se il vero successo di ZC è stato decretato soprattutto da La profezia dell’armadillo, penso che il più riuscito sia Un polpo alla gola, che ho trovato più “maturo” dal punto di vista dello stile e della consapevolezza dell’autore nel suo lavoro. Il primo libro sembra - dico sembra perché non so se sia effettivamente così - un collage di episodi originariamente scritti con altro scopo ai quali è stato poi trovato un filo conduttore attraverso il quale rielaborarli e rimetterli insieme. Il secondo invece dà maggiormente l’idea di una storia pensata, scritta e disegnata per essere tale, per questo dico che sembra più riuscito. L'Armadillo è emotivamente più intenso (non vi dico perché) mentre il Polpo è (quasi) più leggero, più arioso. Penso che preferire l’uno o l’altro dipenda molto da fattori personali.

lunedì 12 novembre 2012

Argo

Nel gennaio-febbraio del 1980 a Teheran 52 ostaggi americani erano rinchiusi nell’ambasciata americana (e lo sarebbero stati fino all’inizio dell’anno successivo). Ciò che nessuno in quel momento sapeva era che altri 6 diplomatici americani erano riusciti a scappare dalla loro ambasciata dopo l’assalto delle forze rivoluzionare e a rifugiarsi nella residenza dell’ambasciatore canadese.

Argo, il secondo film da regista di Ben Affleck, racconta come l’agente della CIA Tony Mendez riuscì a portare fuori dall’Iran questi 6 facendoli passare per la troupe di un film di fantascienza.
Sembra una boiata pazzesca. Un film di fantascienza in Iran, e chi ci crederebbe mai; i guardiani della rivoluzione, poi. L’operazione è passata alla storia come Canadian Caper.

E invece è andata proprio così: Mendez, con l’aiuto del truccatore premio Oscar John Chambers (interpretato nel film da un grande John Goodman) mise in piedi una falsa produzione e organizzò eventi di copertura per creare un contesto al film (una vera porcheria, un po’ Pianeta delle scimmie, un po’ Star Wars), da girare in Medio Oriente. In questo modo riesce ad arrivare a Teheran, facendosi passare per un produttore canadese.

Alla fine giudizio più che positivo, si tratta davvero di un buon film, ben scritto, con grande ritmo, non annoia mai e lascia l’idea di un grande lavoro di ricostruzione storica e documentazione: sembra davvero di stare a Teheran (chissà in quali città mediorientali è stato girato, forse in parte a Istanbul mi diceva l’amico con cui l’ho visto). Consigliatissimo, a super-caldo.

Infine, chicca per i fan di Breaking Bad: c’è anche un grande Bryan Cranston.

sabato 3 novembre 2012

Narrazioni trans-mediali, fra testo e contesto

More about Scatola neraNelle scorse settimane Minimum fax ha portato in Italia Scatola nera, un interessante esperimento letterario dall'autrice de Il tempo è un bastardo. Si tratta di un racconto scritto per essere pubblicato su Twitter in frammenti di massimo 140 caratteri (da pochi giorni disponibile in ebook).

Ciò che è qui importante è il modo in cui fluisce la narrazione non la storia in quanto tale (una bellissima donna mette a repentaglio la propria incolumità infiltrandosi come agente segreto nella vita di un super-criminale al fine di svolgere una missione fondamentale per la salvezza di migliaia di vite).
Si tratta secondo me di una vera opera aperta, utile per riflettere sui meccanismi di una narrazione che, in epoca di social network, web 2.0 e supporti digitali, si fa trans-mediale.

Inizialmente mi sono avvicinato a Scatola nera sbocconcellando senza un preciso ordine sequenziale i post pubblicati su Twitter da @minimumfax, senza continuità, fruendone come sorta di aforismi 2.0 che mi hanno lasciato libero di immaginare il contesto generale e la storia.

Frasi di 140 caratteri al massimo attraverso le quali il lettore ha potuto scomporre e ricomporre a piacimento una storia (non necessariamente la stessa storia immaginata dall’autrice), libero di saltare da un punto all'altro della propria timeline. In qualche modo mi ha ricordato i vecchi libri-game per ragazzi, che non venivano fruiti in maniera sequenziale dalla prima all’ultima pagina ma secondo le dinamiche interpretative proprie di ciascuno.

La successiva lettura lineare dell’ebook fornisce invece un quadro diverso perché il lettore ha la possibilità di completare tutti i buchi che la fruizione in timeline potrebbe aver lasciato, attivando un nuovo processo di interpretazione. Ovviamente ci sarà anche chi con costanza ha seguito tutti i tweet nel giusto ordine con cui venivano pubblicati ma questo uso “tradizionale” del testo mi sembra soprattutto legato alle abitudini culturali di chi legge piuttosto che alla natura del testo stesso.

Il fatto che un racconto venga pensato per essere pubblicato su Twitter in frasi di 140 caratteri (non considerando per ora la possibilità di pubblicarlo in “volume” e offrire a tutti la possibilità di leggerlo in modo più convenzionale) implica un diverso rapporto col Lettore; quest’ultimo potrà decidere quanti e quali porzioni di testo leggere, in che ordine, se e come mescolarle. Significa anche offrirgli la possibilità di costruire una nuova storia, diversa da quella immaginata dall’Autore.

Una storia (particolare per me più affascinante di questo nuovo approccio alla narrazione) con personaggi diversi e nuovi, che l’Autore non poteva proprio prevedere, frutto dell’interazione fra il testo in questione con gli n-testi prodotti ogni minuto su Twitter. Ogni persona che seguiamo, con i suoi tweet, interagisce con il “testo” (in questo caso “Scatola nera” ma il discorso meriterebbe un approfondimento generale) e ne fa nascere uno completamente nuovo: è la stessa timeline a diventare a sua volta un “testo” (anzi un ipertesto o ancora meglio un ipermedia) che non potrà essere ricondotto dentro i confini del libro se non dopo un ulteriore lavoro di interpretazione e rimediazione che non potrà però mai rispecchiare l’unicità del testo che ciascun lettore ha costruito per se stesso.

A questo punto abbiamo 5 tipi di testo:

  • il racconto così come l’ha pensato l’Autore;
  • l’insieme dei frammenti di testo pubblicati su Twitter nei modi e nei tempi decisi (in questo caso) dall’editore;
  • la versione unica e originale che ciascun Lettore ha ricostruito per se stesso fruendo di ciascun tweet in cui è stato scomposto il racconto;
  • il risultato dell’interazione di questi tweet con la timeline di ogni Lettore;
  • la timeline che da contesto diventa essa stessa testo.

Le potenzialità, semiotiche, di una narrazione trans-mediale stanno qui: essa dimostra che i confini di un testo sono in grado di spostarsi continuamente in avanti al punto da non poter più individuare un autore se non nella forma di una sorta di intelligenza collettiva formata dai contributi particolari di ciascuno sia per quanto riguarda la “produzione” sia per ciò che concerne l’interpretazione, che è sempre una nuova produzione di significato (e quindi di testo): Peirce 2.0, direi.

giovedì 1 novembre 2012

Chronic City, di Jonathan Lethem

Partiamo da un assunto fondamentale. A me Chronic city è piaciuto da morire, mi ha incantato, l’ho trovato folgorante.

Potrebbe essere sufficiente questo (il mio opinabilissimo giudizio) per buttarsi dentro al romanzo di Lethem e scoprire da voi di che si tratta. Ma poiché stiamo parlando di un’opera assolutamente particolare bisogna fare lo sforzo di individuare una chiave di lettura, sviscerarne alcuni temi e ricostruirne il contesto. Si tratta di uno di quei libri in cui apparentemente succede ben poco, in cui lo stile (ironico, divertente e colto) sembra prevalere sul resto ma, fidatevi di me, non è assolutamente così.

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OCCHIO: SEGUE QUALCHE INEVITABILE SPOILER SULLA TRAMA (ma senza svelare particolari colpi di scena di cui il libro è, secondo me, particolarmente ricco). 
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Ambientato in una New York indefinita e, direi, del tutto parallela a quella reale racconta le vicende di Chase Insteadman, ex ragazzo-prodigio delle serie-tv e ormai ex-attore che campa di diritti di immagine e della gloria passata, vive una nuova notorietà come il fidanzato di un’astronauta bloccata su una stazione spaziale (e impossibilitata a tornare sulla terra insieme al resto dell’equipaggio) la cui storia strappalacrime è quotidianamente presente su giornali e tv. Ma Chase non sente più niente per lei, non rammenta neanche più il suo volto tanto è lontano e annebbiato il suo ricordo. Non gli resta che fare altro che bighellonare per Manhattan e trascorrere le sue giornate con la variegata compagnia di giro che si riunisce intorno a Perkus Tooth, critico musicale e cinematografico molto noto 10 o 20 anni prima sulla scena culturale indie fissato con Marlon Brando e il fantomatico regista Morrison Groom.

Fra giornate passate a guardare le videocassette di Perkus, a fumare erba di varie qualità (fra le quali, appunto, una delle più pregiate è la chronic) e a frequentare il jet set newyorkese in virtù del suo ruolo di eterno fidanzato infelice ed ex star televisiva, Chase (l’uomo-invece, appellato per sbaglio nel corso del libro non-person) appare effettivamente come un personaggio non tanto in cerca d’autore ma quanto della sua stessa essenza.

Privo di personalità non gli resta che recitare la parte assegnatagli di volta in volta e mimetizzarsi camaleonticamente per sembrare quello che la gente si aspetta da lui. Ma questa vita così scialba e routinaria verrà progressivamente sgretolata sotto i colpi dell’eccentricità di Perkus e dell’amica ed ex assistente di lui Oona Laszlo, ghostwriter di professione dalla forte personalità che trascinerà Chase in una stranissima relazione apparentemente di solo sesso ma che ben presto diverrà, per lui, la sua vera storia d’amore parallela a quella ufficiale con l’astronauta Janice Trumbull.

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 E DIREI CHE GLI SPOILER SULLA TRAMA SONO SUFFICIENTI --------------------------------------------------------------------- 

Tutto si svolge, come dicevo, in una New York alternativa a quella vera, in un epoca indefinita ma comunque, senza mai nominarli, post-11 settembre e guerre in Afghanistan e Iraq (unico riferimento l’esistenza di una versione del New York Times “senza guerra”).  Una New York governata come nella realtà da un sindaco magnate dei media, sulla quale da alcuni anni è caduta una pesante nebbia che ha reso praticamente inaccessibile un pezzo di città; devastata periodicamente da una misteriosa, inafferrabile ed enorme tigre, scappata da chissà dove; nella quale si verificano periodicamente strani fenomeni (come un pervasivo e penetrante odore di cioccolato nell’aria, che alcuni invece percepiscono sotto forma di suono); dove si sta comunque realizzando una grandiosa opera d'arte dedicata alla memoria.

Alternativo è anche il paesaggio culturale: la gente legge Obstinate Dust (invece di Infinite Jest), guarda i film degli Gnuppets (al posto dei Muppets) e Marlon Brando potrebbe essere perfino vivo. Lethem ha imbottito il libro di riferimenti e citazioni di ogni tipo, inevitabile perdersene qualcuna.

La New York e l’America di Chronic City sono pervase da un profondo senso di inquietudine, così come tutto il romanzo, dettata dalla sensazione di non riuscire a leggere interamente la realtà e di non essere neanche in grado di interpretare correttamente quei frammenti che ci si ritrova davanti (fortissimo qui l'influsso di Dick sulla scrittura di JL, autore che ha contribuito al rilancio di PKD negli ultimi anni e alla sua rivalutazione critica).

Il romanzo di Lethem parla soprattutto di ossessioni e di ricerca del reale significato delle cose che ci accadono, che possono avere due, tre o infinite verità perché noi stessi cambiamo nel tempo, cambiamo per le persone che ci circondano (e cambiamo le persone di cui ci circondiamo) e magari dimentichiamo come tutto è cominciato. Per smettere di essere delle non-persone (o per evitare di diventarlo e ritrovarsi a recitare una parte scritta da altri) non si può far altro che fare attenzione anche al minimo dettaglio, perché anche il volo di uno stormo di uccelli al di sopra di una torre può far sbocciare la consapevolezza di cui abbiamo bisogno.
 
“La paranoia è un fiore nel cervello” dice Perkus a Chase.

La paranoia è un fiore nel cervello. A voi la corretta interpretazione, io la mia idea me la sono fatta.