Moebius

Moebius

domenica 27 febbraio 2005

Una bella ricetta

Le scadenze si avvicinano, perché martedì devo andare a parlare col professore e mercoledì mi iscriverò ufficialmente alla sessione di aprile. Un piccolo particolare: ancora non vedo la luce per finire la tesi. Però porto avanti lo stesso queste pratiche burocratiche: chissà che messo davanti a delle scadenze precise da rispettare non riesca a combinare qualcosa di buono in poco tempo (perché il tempo stringe: sono in ritardo, sono in ritardo!!!).
Non so cosa accadrà nelle prossime settimane, che saranno veramente decisive. Cavolo, ma perché non sono più un bravo bambino diligente? Perché mi trastullo così? Perché sto a pensare due cazzate da scrivere sul blog invece di studiare?
 
Qui ci vogliono i miracoli, ragazzi. E quella è roba da esperti, ma in giro non che se ne vedano così tanti. Mi sapete indicare una fattucchiera, una strega, un mago merlino qualsiasi, ma di quelli bravi davvero?

Ho bisogno di un miracolo che mi infonda forza di volontà, grinta, ambizione. Un pizzico di sicurezza e di autostima, e magari un pelo di gatto, una zampa di rospo, due piume di corvo, un dente di drago, che è la morte sua, signo’.
Ah, se ci mettete anche una coda di lucertola, vedrete che sapore che gli da. È buona pure per il brodo.
Poi fate cuocere a fuoco lento per una buona mezzora e servite fumante (si sa che le pozioni vanno bevute fumanti).
Prima di bere aggiungete un pizzico un tocco di cane (chi coglie la citazione?), miscelare e accompagnare con un amaro di quelli forti, perché si sa che i denti di drago si piazzano sullo stomaco.
 
Qualcuno conosce una ricetta per una pozione più efficace?
 

giovedì 24 febbraio 2005

Alice

[questa è la seconda parte del racconto che ho iniziato a pubblicare qualche tempo fa, e che ho ripubblicato subito qui sotto. Non cercate grande coerenza narrativa, scrivo di getto, senza sapere ancora bene come andrà a finire. Diciamo che quello che sto pubblicando qui nel blog è soprattutto un esperimento]

«Sei solo qua dentro, lo vuoi capire o no?».
«Non è vero. Ho sentito delle voci. C’è gente che come me urla che vuole essere liberata».
«Di tanti scemi che potevamo prendere proprio te hanno scelto. Hai il cervello marcio ormai. Mi chiedo se sarai capace di fare il tuo lavoro».
«Lavoro? Che lavoro?».
«Questo lo saprai a tempo debito. Per il momento sono venuto a dirti di stare buono perché non c’è nessuno che può sentirti, solo io e miei amici. E non ti preoccupare che laggiù nella Città nessuno ti sta cercando».
«Laggiù? Vuol dire che siamo in superficie? SIAMO IN SUPERFICIE?».
«Ahahaha… credi quello che vuoi, tanto per te è la stessa cosa».
 
Ho visto Alice, ma non era come nel paese delle meraviglie. Non si tratta di una bambina bionda con gli occhi azzurri curiosa come poche e che si tuffa in un tronco all’inseguimento di un coniglio bianco. La mia Alice è un uomo, come vi ho già detto.
L’ho incontrato cinque giorni fa. Sono sicuro sui giorni perché me lo hanno detto loro quanti giorni sono passati da quando mi hanno portato in questo buco pieno di sporcizia, freddo e senza un cazzo da mangiare. Tra l’altro non so nemmeno perché vi racconto queste cose, tanto lo so che non ci siete, nella stanza accanto, me lo ha detto quel mezzo matto di Alice.
È un tipo strano, freddo. Lo senti da lontano che è un pezzo di ghiaccio, fa venire i brividi. In suoi tratti sono quasi asiatici, con gli occhi leggermente a mandorla, occhi di serpente neri e profondi, ma vuoti come due pozzi, e la carnagione olivastra. Il tipico figlio del melting pot del XXI secolo. Ha il sorriso come una tagliola, e chissà quanta gente ha intrappolato facendola andare fuori di testa. Perché ha la capacità di non far capire più niente, di farti dubitare di tutto. Di farti diventare il più grosso scemo che sia mai esistito. Chissà quanti cappellai ha incontrato quell’uomo per diventare così; quanti bianconigli e quanti stregatti; e soprattutto quanti bruchi oppiomani in cima a un fungo. Mi sa che quel Lewis Carrol doveva essere fumato come pochi quando ha scritto Alice: altro che prete che ha scritto un libro per una bambina figlia di amici, quello ha proprio scritto delle sue allucinazioni dovute all’oppio. Me la immagino la scena: lui appoggiato a un albero, che fuma oppio e che vede passare un morbido coniglietto bianco. Solo che questo coniglio del cazzo inizia a parlare. A voi che effetto avrebbe fatto una tale visione? Non ci avreste scritto un libro?
 
Ma a chi lo chiedo? Lo so che sono solo. Sono qui e parlo solo con me stesso ed è questo il motivo per cui sono cinque giorni che parlo, parlo, parlo e ancora parlo ma nessuno mi risponde. Apro la bocca e faccio uscire tutto quello che mi passa per la testa, così so che sono ancora vivo, forse. La cosa buffa è che scopro che riesco solo a pensare a un mare di stronzate.
Me lo ha detto Alice che penso solo ad un mare di stronzate. Sono stronzate perché mi ha detto che tornerò in Città, a fare il mio lavoro, e niente sarà cambiato per me. E non devo preoccuparmi di niente. Che nessuno mi farà del male. E allora per quale motivo mi tenete legato a una sedia e non mi fate mangiare?
 
«Perché sei troppo importante per noi», la risposta di quella copia mal riuscita della bambina con dai capelli biondi.
«Importante? Ma sono solo un impiegato comunale! Sto tutto il giorno davanti ad un computer a sbrigare pratiche. Avete sbagliato persona, brutte teste di cazzo».
«Modera il linguaggio. Potrei mandare uno dei miei amici per calmarti. Quello di cui ti occupi è molto importante per noi».
«E voi chi sareste?».
«…».
«Che fai, non rispondi ora? Già hai finito il tuo spettacolo?».
 
Ed ero solo incredibile ma vero, in quel preciso istante, ero solo. Alice è scomparso nell’aria: niente fumo o roba del genere ma semplicemente non avevo più davanti agli occhi la sua immagine. Come se non ci fosse mai stato. Ho assistito ad una pura illusione.
© Stefano/PhilipDick

Una voce nel buio

È venuto il momento. Il momento di ricordare. Di ricordare perché. Di ricordare quando. Sono finito qui.
È buio pesto qua dentro, e fa freddo, freddissimo. Per di più sono legato a una sedia, se è una sedia. A volte sento un po’ di aria che mi sfiora i capelli. Forse c’è qualche condotto di aerazione da qualche parte. Finestre non credo.
Non so nemmeno quanto sia grande questa stanza. Non troppo, perché se grido non si sente rimbombo per niente, ma non credo che sia nemmeno troppo piccola: lo sentirei altrimenti. Però è vuota, questo è certo. Lo sento.
 
Il tempo è passato e scorre imperterrito ma io non me ne accorgo. Per me è sempre lunedì, il giorno in cui sono finito qua. Quella mattina mi ero alzato come sempre per andare in ufficio, puntuale alle alle nove. Cosa significhi poi puntuale alle nove non lo so: è un modo di dire che da quando sto qui ha perso significato. Per me le nove o le dieci o le undici ormai sono la stessa cosa. Non so nemmeno quando è giorno o notte. Presumo che sia notte quando mi addormento ma solo perché di notte dormo. Voi no? Dio come sto male, se mi viene da scherzare in questo momento.
O forse significa che ancora non mi è andato del tutto in pappa il cervello.
 
Che dite? Non capite niente? Come sto? Scusate mi ero addormentato. È stata una notte breve stavolta, forse un quarto d’ora. Dite di più? E perché non mi avete svegliato prima, tanto non devo andare da nessuna parte domattina. Cazzo, che spirito, sono pronto per il David Letterman Show.
Una volta ero più divertente. Era quando ancora non ero stato aggredito, incappucciato e drogato da tre tizi grandi come montagne. O forse sono i miei ricordi che ingigantiscono tutto. Uno a dire il vero non era tanto grosso: me lo ricordo bene perché sembrava il capo, o almeno quello che comandava quei due, che invece sembravano veramente due scimmioni, come se l’evoluzione avesse risparmiato qualche Neanderthal.
Vi dicevo di quello piccolo. È un tipo magro, non troppo alto, forse un metro e settanta. Un tipo nervoso, tutto scatti, che mette paura perché lo vedi da lontano che è strafatto di quella roba che gira nelle periferie più malfamate della Città. Non che lui ci vada nelle periferie, sicuramente conosce bene qualcuno che la vende quella merda. Si chiama Alice. Non scherzo, lo chiamavano Alice, i due scimmioni. Penso che sia un soprannome. A cosa sia dovuto, proprio non saprei. Ma uno che si fa chiamare con un nome da donna deve avere un gran fegato. Oppure semplicemente è gay, chi lo sa. Secondo me si tratta solo di un grandissimo figlio di puttana.
 
Scusate mi ero addormentato ancora. Mi succede sempre più spesso. Mi hanno dato della roba, ve l’ho detto credo. Non so di che si tratta. Era in cristalli rosa, ho visto quando li hanno sciolti con una specie di acido, poi hanno tirato tutto su con una siringa e me lo hanno iniettato in vena. Da quel momento ho perso ogni cognizione di spazio e tempo. Ve l’ho detto, non so più quanto tempo sia passato: può darsi che sia persino martedì per quello che ne so io. Mi girava la testa, adesso va un po’ meglio, e vedevo tutto da mille colori. Per questo non mi ricordo com’è fatta questa stanza: mi ci hanno buttato dentro, mi hanno immobilizzato, e poi hanno chiuso la porta e buttato la chiave, credo, visto che non si è più fatto vivo nessuno, né Alice né i neanderthal.
Ho una fame incredibile, probabilmente sono giorni che non mangio. Bere, bevo. C’è una cannuccia, un tubo, non saprei, sistemato proprio davanti alla bocca, e ogni tanto succhio. Mi fa pensare positivo questo particolare: mi vogliono vivo, ma ancora non hanno deciso che farsene di me, o forse non è ancora il momento.
 
E voi? Perché siete qua? Non avete detto quasi niente. Non ce la faccio più a parlare, ditemi qualcosa di voi. Siete nella stanza accanto vero?
 
© Stefano/PhilipDick
 

mercoledì 23 febbraio 2005

Da consumarsi preferibilmente entro...

 

Di solito si guarda la scadenza sullo yogurt (che non mangio), sul latte (che bevo in quantità industriale, neanche fossi un lattante), sulle medicine (che uso solo quando serve), ma non ho mai fatto caso se anche noi abbiamo una scadenza.
 
Mi sono accorto che ne ho alcune pure io, di scadenze. Una dovrebbe essere il 1 marzo, quando andrò a parlare col prof, che mi dovrà firmare i moduli per la tesi e mi dovrà verbalizzare la biennalizzazione che mi sembra di aver capito neanche farò, almeno per il momento: non avendo tempo lui, e visto che questa storia della biennalizzazione va avanti da un po’, per farmi stare buono mi verbalizzano l’ultimo esame sulla fiducia (così mi sembra di aver capito dalla mail che ho ricevuto ieri dall’assistente: a meno che il prof non cambi idea, o non sia d’accordo).
Un’altra scadenza è il 2 marzo, che devo portare in segreteria i moduli firmati dal professore e il dischetto con la tesi (che non è finita ma non è un problema), oltre alla ricevuta di pagamento della tassa.
Poi c’è il 31 marzo, entro cui, salvo cambiamenti dovrò portare la tesi bella e pronta al correlatore che mi verrà assegnato: insomma entro il 31 devo finire di scrivere l’ultimo capitolo (che non ho iniziato e non ho neanche le idee ben chiare), magari l’introduzione e la conclusione; poi dovrò farla stampare e rilegare. Magari qualche giorno in più parlando col correlatore lo potrei strappare.
 
Insomma il 31 marzo scado io. Se passo quella data senza aver fatto queste cose sarò diventato da buttare via. Però se ci riesco la mia data di scadenza si sposta un po’ più avanti.
 
Sto cercando di guardare se ho scritta da qualche parte qualche altra data di scadenza. Magari sotto al piede: finito di confezionare il 18 03 79, consumarsi preferibilmente entro il… cazzo non riesco a leggere!
Se dovessi scadere come faranno le donne che ancora non mi hanno consumato?

martedì 22 febbraio 2005

 "L'immaginario è un luogo senza tempo e senza spazio, come il delirio degli schizofrenici. C'è chi come loro vi resta impigliato e non riesce più a trovare la strada del suo corpo"

Valerio Evangelisti - Nicolas Eymerich, inquisitore

lunedì 21 febbraio 2005

To be or not to be...

Essere… o non essere. È questo il problema. Se sia meglio per l’anima soffrire oltraggi di fortuna, sassi e dardi, o prender l’armi contro questi guai e opporvisi e distruggerli. Morire, dormire… nulla più.
Bello, eh? Ho sempre sognato di scrivere qualcosa di così bello, peccato che pure stavolta non sia roba mia ma di un’operetta che pochi conoscono, Amleto, di un certo Guglielmo AgitaLancia… (mi piacciono i cognomi inglesi, spesso e volentieri si possono tradurre dando luogo a effetti curiosi. A dire il vero lancia in inglese è spear e non speare, e quindi si pronuncerà pure diversamente che in Shakespeare).
 
Lasciando stare queste amenità. Essere o non essere? Ci sarà un motivo se queste righe, con cui inizia il monologo più famoso della storia del teatro (smentitemi se ci riuscite), sono sempre nell’immaginario, collettivo e individuale. Tutti ci abbiamo riflettuto sopra prima o poi e tutti ci siamo chiesti se sia meglio soffrire o prender l’armi contro dardi e guai e opporvisi e distruggerli.
Rimane da capire come si possano distruggere. Bisognerebbe avere un piano, una strategia, una tattica (non ricordo la differenza fra strategia e tattica: l’una è di chi dispone del tempo, l’altra dello spazio… io non ho né l’uno e né l’altro).
A volte abbiamo bisogno di pensare, di riflettere, e poi di agire. Magari prima non essere, e poi essere qualcosa che non avremmo mai immaginato.
Il problema è questo discorso dell’essere e non essere, se lo guardiamo a fondo, intimamente, da un punto di vista filosofico e anche psicologico e molto relativo. Magari per Amleto non era così, e neanche per Shakespeare, che ha vissuto in un’epoca in cui il relativismo come concetto filosofico ancora non era nato (niente Einstein, Freud o Pirandello in quel momento, per non parlare di PkD), però si dice sempre che la grandezza di Shakespeare sta nel fatto che le sue opere sono universali e parlano anche dei nostri tempi, perché certe cose non cambiano mai, giusto?
Dicevo, il discorso sull’essere e sul non essere è secondo me relativo. Noi siamo in rapporto ad un modello, ad un ideale, ad un ruolo per dirla in termini sociologici che sappiamo dovremmo giocare perché lo abbiamo appreso. E quando siamo distanti da questo ideale allora non siamo? O magari siamo qualcosa di diverso semplicemente. E potrebbe anche andarci bene così, e a quel punto ritagliarci un nuovo ruolo, a pennello per noi, e che lo scrittore stavolta non faccia scherzi.
 
Ma se ancora non abbiamo capito quale sia il nostro ruolo? Se stiamo assistendo alle prove della rappresentazione (perché la vita è una rappresentazione, e non sappiamo fin dove siamo noi stessi e dove cominciamo a recitare) e ancora non ci hanno detto quale è la nostra parte? A quel punto essere e non essere sono la stessa identica cosa, non si possono distinguere all’atto pratico. A quel punto diventiamo dei personaggi in cerca d’autore e vorremmo cantargliene quattro allo scrittore.
Messa così è un dilemma irrisolvibile.
L’unica strada è pensare che ci sono tanti essere (in senso lato naturalmente… e se siete ferrati in filosofia, e io non lo sono, non c’entra niente l’Essere di Heidegger) e tanti non essere, perché tante cose siamo chiamati a fare e tante volte non rispondiamo, oppure facciamo cose che non ci erano richieste, improvvisiamo e usciamo dal copione, e a quel punto smettiamo di essere? No, proprio no.
 
È questo il punto: noi siamo sempre, anche quando non siamo, soprattutto quando non lo sappiamo. Noi siamo sempre qualcosa, e questa è l’unica verità. E affannarsi a capire cosa siamo è inutile, se non a piccoli passi, se non circoscrivendo la ricerca a singoli ambiti della nostra vita che di volta in volta mutano loro stessi e il nostro modo di guardarli.
Il mondo gira vorticosamente, fermatelo che voglio scendere, fermate la giostra, diceva il mio prof di sociologia per spiegare l’anomia (quando, in breve, sentiamo di non essere rispetto a qualche ruolo). Ma, sempre come diceva (e probabilmente dice ancora, perché si sa che i professori hanno una coazione a ripetere sempre le stesse cose) fingiamo di stare su Marte e di guardare in basso, sulla Terra. A questo punto che vediamo? Un sacco di formiche elettriche, che girano vorticosamente, alla ricerca del loro essere.
Io sono certo di non esser solo in questa ricerca. Solo che ognuno la conduce in modo individuale, a volte in compagnia per un tratto di strada, il più delle volte da solo, dentro di sé. Esplorando mondi che solo lui conosce, e senza bisogno di droghe di alcun tipo, credetemi; ognuno ha i propri mondi da visitare, ognuno ha le proprie realtà da percepire, ognuno ha il proprio modo di interpretare questo mondo, che non necessariamente è lo stesso, quello più grande che li racchiude tutti, di tutte le formiche elettriche.
 
Mi sento una formica elettrica che non vuole più essere una formica. Ma la strada giusta ancora non l’ho trovata, e chissà se ce ne è una giusta.
 

venerdì 18 febbraio 2005

Per Giuliana Sgrena

 Sul blog del Militante ho letto dell'appello di Cascade a pubblicare le foto di Giuliana Sgrena sulla tragedia del popolo iracheno. Domani si svolgerà a Roma e in altre città italiane la manifestazione per Giuliana. Magari non servirà a molto ma anche io pubblico queste foto, che spero girino per il web e aiutino a sensibilizzare le opinioni per quello che sta accadendo in Iraq, oltre che naturalmente far sentire come il popolo italiano non sia tutto come chi lo governa.

donnaHilla

Iraq
Ospedale di Hilla (Babilonia),bambini feriti da cluster bomb
dopo un bombardamento dell'esercito americano
Aprile 2003
Foto Giuliana Sgrena

Hillabimboferito1

Ospedale di Hilla

bambinoafghanocarrozzella

Foto tratte da http://www.ilmanifesto.it/pag/sgrena/fotobambini/tumb/

mercoledì 16 febbraio 2005

 Giorni un po' così... Ho cancellato il blog che mi aveva portato tante cose buone, ma che da un po' non potevo più vedere con serenità. Ora sta in sala rianimazione, prima di resuscitarlo del tutto ci vorrà tempo però