Ho sempre, sinceramente, pensato che per produrre un'opera
originale (e uso la parola opera in senso lato, come una produzione
dell'ingegno e della creatività) spesso non basti il talento puro. Non è
possibile scrivere Infinite Jest (visto che siamo nella settimana di #DFW50),
inventare la lampadina, scoprire la penicillina o creare il web solo con la
pura ispirazione ma è necessaria una grande dedizione alla propria vocazione
(quella in qualche modo serve sempre).
Gli studi dello
psicologo cognitivo Anthony McCaffrey, di cui parla oggi La Repubblica, vanno
proprio in questa direzione. Al di là del valore scientifico della ricerca (che
non sono assolutamente in grado di giudicare), mi affascina moltissimo l'idea
che la creatività non sia legata soltanto al genio individuale. O meglio, che
il genio da solo non sia sufficiente per ottenere successi e
riconoscimenti.
Bisogna essere degli stakanovisti, fare ogni giorno i propri
"esercizi", allenare il cervello a costruire nuove connessioni, a
rielaborare la realtà secondo schemi innovativi e mai visti prima. Quando non
si fa ciò e si inizia a battere strade già conosciute ci si impoverisce
inevitabilmente, le nostre idee perdono in originalità, le aspirazioni
evaporano e tutto diventa routine e prevedibilità.
La creatività è faticosa. Essere creativi richiede impegno. Riempire
le proprie vite di novità e far sì che da queste nasca qualcosa di bello e
importante, per sé e per gli altri, è una cosa che richiede, quindi, anche un
grande lavoro su se stessi per imparare ad aprirsi alla realtà, a leggerla e a
riconoscere quegli spiragli di luce in cui infilarsi per riemergerne con nuove
idee e passioni.
Nessun commento:
Posta un commento