Per chi come me vede la lettura come un’azione attiva per aggiungere
sempre e comunque qualcosa a se stessi, alla propria visione del mondo, alla
conoscenza di ciò che ci gira intorno, un libro come Ogni giorno è per il ladro
di Teju Cole è una sorgente a cui attingere a piene mani.
Attingere esperienze. Fare scoperte. Viaggiare nella
memoria. Immaginare un mondo altro da sé (e toccare un mondo altro da sé,
perché immaginare è sempre vedere e costruire qualcosa). Trovare le chiavi per
aprire certe porte.
Il libro di Cole (scritto nel 2007 ma pubblicato, non solo da noi, nel 2014) è una sorta di diario di un giovane
nigeriano che, dopo essere emigrato negli Stati Uniti 15 anni prima, ormai
cittadino americano, torna per alcune settimane nel suo paese per incontrare i
parenti lasciati indietro, gli amici ma soprattutto immergersi in una città e
in un paese allo stesso tempo fermi e in fermento.
Il protagonista del libro sembrerebbe lo stesso Cole ma è
invece un suo alter ego, che senza rinnegare le sue origini (anzi andando alla ricerca
di tutto ciò da cui è partito per cercare, come afferma nel libro, “l’impossibile”),
è ormai perfettamente occidentalizzato e dell’Occidente ha interiorizzato il
senso per il bene pubblico e per la legalità, il rifiuto della violenza, le
regole democratiche.
Arrivando in Nigeria (anzi già prima di partire) deve fare
subito i conti con uno dei paesi più corrotti del mondo, in cui la mazzetta è
elemento imprescindibile nella vita quotidiana di qualsiasi nigeriano; dove lo
sviluppo è sempre soltanto apparente e non frutto di programmazione, ricerca e
innovazione; dove le disparità sociali fra ricchi e poveri sono sempre più
profonde; in cui la cultura è quasi sempre soffocata dalla mancanza di visione
ma anche dalla corruzione e dall’illegalità che pervade ogni settore e che
soffoca anche un patrimonio storico ricchissimo.
In quelle settimane trascorse a casa di alcuni zii, il
protagonista-che-forse-è-ma-in-realtà-non-è-Cole incontra parenti, amici di
infanzia, riscopre una città, Lagos, profondamente cambiata ma allo stesso
tempo sempre uguale.
Egli prova a capire non tanto, e non solo, cos’è la
Nigeria contemporanea quanto piuttosto se, in qualche modo, potrebbe perfino
tornare a vivere lì.
Alla fine si tratta di un pensiero passeggero, che appare e
scompare qua e là nella narrazione e quasi sempre la risposta è no: no, perché
è difficilissimo trovare una nicchia in cui coltivare interessi e passioni
culturali; no perché professioni prestigiose come quella di medico non
consentono più di vivere dignitosamente mentre sono altri i settori dove
circolano i soldi; no perché bisognerebbe imparare a convivere ogni giorno con
la violenza e la corruzione.
E infine no perché manca la cosa più importante di tutte, la
libertà. La libertà di diventare quello che si vuole e persino la libertà di
essere infelici.
Quella che scopriamo da Cole è una società con una grande
livello di sofferenza repressa (alcuni dei passaggi più belli del libro sono
dedicati a questo aspetto); i nigeriani si dicono felici perché “devono” essere
felici: lo dice il governo, lo dice la religione (cristiana o musulmana che
sia), lo dice la regola sociale.
Si tratta di un paese in cui la storia viene rimossa regolarmente non solo a livello ufficiale ma anche nella vita di tutti i giorni. E se non c'è elaborazione del passato non c'è cultura e non c'è speranza.
L’impressione che ha il lettore è che il protagonista-che-forse-è-ma-non-è-Cole
si senta quasi più straniero in Nigeria che in America, dove ha comunque dovuto
intraprendere un lungo, e immaginiamo difficile, percorso per adattarsi alla
vita occidentale, per integrarsi e per prenderne tutti i vantaggi (una laurea
in medicina e una specializzazione in psichiatria, la possibilità di viaggiare e
di tornare in Nigeria da turista).
Questo ritorno alle origini è in realtà anche il racconto di
uno sradicamento dalle proprie radici e dalla propria famiglia. Non c’è quasi
nulla di romantico perché la vita, qualsiasi vita, è sempre costellata di
separazione, di tagli col passato, di ricostruzioni che ci rendono diversi
rispetto a quando siamo partiti. E questa diversità si concretizza con la
distanza non solo con chi è rimasto indietro (e che immagina un giorno di poter
compiere lo stesso viaggio) ma anche con i noi-stessi che eravamo.
Infine, chiudo con alcune considerazioni sulla scrittura di
Cole, nella versione tradotta da Gioia Guerzoni per Einaudi. Si tratta di uno
stile molto pulito e lineare, senza fronzoli ma da cui emergono frasi dal grandi impatto (dopo magari
aver raccontato di una visita in un museo o in una libreria o a qualche vecchia
amica).
Citazione:
“…...e mi chiedo perché sono venuto, perché ho cercato,
ancora una volta, di recuperare l'impossibile”.