Essere… o non essere. È questo il problema. Se sia meglio per l’anima soffrire oltraggi di fortuna, sassi e dardi, o prender l’armi contro questi guai e opporvisi e distruggerli. Morire, dormire… nulla più.
Bello, eh? Ho sempre sognato di scrivere qualcosa di così bello, peccato che pure stavolta non sia roba mia ma di un’operetta che pochi conoscono, Amleto, di un certo Guglielmo AgitaLancia… (mi piacciono i cognomi inglesi, spesso e volentieri si possono tradurre dando luogo a effetti curiosi. A dire il vero lancia in inglese è spear e non speare, e quindi si pronuncerà pure diversamente che in Shakespeare).
Lasciando stare queste amenità. Essere o non essere? Ci sarà un motivo se queste righe, con cui inizia il monologo più famoso della storia del teatro (smentitemi se ci riuscite), sono sempre nell’immaginario, collettivo e individuale. Tutti ci abbiamo riflettuto sopra prima o poi e tutti ci siamo chiesti se sia meglio soffrire o prender l’armi contro dardi e guai e opporvisi e distruggerli.
Rimane da capire come si possano distruggere. Bisognerebbe avere un piano, una strategia, una tattica (non ricordo la differenza fra strategia e tattica: l’una è di chi dispone del tempo, l’altra dello spazio… io non ho né l’uno e né l’altro).
A volte abbiamo bisogno di pensare, di riflettere, e poi di agire. Magari prima non essere, e poi essere qualcosa che non avremmo mai immaginato.
Il problema è questo discorso dell’essere e non essere, se lo guardiamo a fondo, intimamente, da un punto di vista filosofico e anche psicologico e molto relativo. Magari per Amleto non era così, e neanche per Shakespeare, che ha vissuto in un’epoca in cui il relativismo come concetto filosofico ancora non era nato (niente Einstein, Freud o Pirandello in quel momento, per non parlare di PkD), però si dice sempre che la grandezza di Shakespeare sta nel fatto che le sue opere sono universali e parlano anche dei nostri tempi, perché certe cose non cambiano mai, giusto?
Dicevo, il discorso sull’essere e sul non essere è secondo me relativo. Noi siamo in rapporto ad un modello, ad un ideale, ad un ruolo per dirla in termini sociologici che sappiamo dovremmo giocare perché lo abbiamo appreso. E quando siamo distanti da questo ideale allora non siamo? O magari siamo qualcosa di diverso semplicemente. E potrebbe anche andarci bene così, e a quel punto ritagliarci un nuovo ruolo, a pennello per noi, e che lo scrittore stavolta non faccia scherzi.
Ma se ancora non abbiamo capito quale sia il nostro ruolo? Se stiamo assistendo alle prove della rappresentazione (perché la vita è una rappresentazione, e non sappiamo fin dove siamo noi stessi e dove cominciamo a recitare) e ancora non ci hanno detto quale è la nostra parte? A quel punto essere e non essere sono la stessa identica cosa, non si possono distinguere all’atto pratico. A quel punto diventiamo dei personaggi in cerca d’autore e vorremmo cantargliene quattro allo scrittore.
Messa così è un dilemma irrisolvibile.
L’unica strada è pensare che ci sono tanti essere (in senso lato naturalmente… e se siete ferrati in filosofia, e io non lo sono, non c’entra niente l’Essere di Heidegger) e tanti non essere, perché tante cose siamo chiamati a fare e tante volte non rispondiamo, oppure facciamo cose che non ci erano richieste, improvvisiamo e usciamo dal copione, e a quel punto smettiamo di essere? No, proprio no.
È questo il punto: noi siamo sempre, anche quando non siamo, soprattutto quando non lo sappiamo. Noi siamo sempre qualcosa, e questa è l’unica verità. E affannarsi a capire cosa siamo è inutile, se non a piccoli passi, se non circoscrivendo la ricerca a singoli ambiti della nostra vita che di volta in volta mutano loro stessi e il nostro modo di guardarli.
Il mondo gira vorticosamente, fermatelo che voglio scendere, fermate la giostra, diceva il mio prof di sociologia per spiegare l’anomia (quando, in breve, sentiamo di non essere rispetto a qualche ruolo). Ma, sempre come diceva (e probabilmente dice ancora, perché si sa che i professori hanno una coazione a ripetere sempre le stesse cose) fingiamo di stare su Marte e di guardare in basso, sulla Terra. A questo punto che vediamo? Un sacco di formiche elettriche, che girano vorticosamente, alla ricerca del loro essere.
Io sono certo di non esser solo in questa ricerca. Solo che ognuno la conduce in modo individuale, a volte in compagnia per un tratto di strada, il più delle volte da solo, dentro di sé. Esplorando mondi che solo lui conosce, e senza bisogno di droghe di alcun tipo, credetemi; ognuno ha i propri mondi da visitare, ognuno ha le proprie realtà da percepire, ognuno ha il proprio modo di interpretare questo mondo, che non necessariamente è lo stesso, quello più grande che li racchiude tutti, di tutte le formiche elettriche.
Mi sento una formica elettrica che non vuole più essere una formica. Ma la strada giusta ancora non l’ho trovata, e chissà se ce ne è una giusta.