Pubblico di nuovo questo post che scrissi giusto un anno fa, in occasione del terzo anniversario dell'11 settembre. Visto che è un bel post, scritto molto bene, e visto che che il mio pensiero non è cambiato di una virgola penso che sia ancora più o meno attuale. Poi mettiamoci la pigrizia e la scarsa vena di cui soffro in questo periodo, per cui difficilmente potrei scrivere qualche parola veramente significativa, ora ve lo beccate.
[Nota: questo post è effettivamente molto lungo, ve lo dico prima così chi avrà voglia di leggerlo non mi maledirà. Probabilmente questo è un tema su cui oggi leggerete e vedrete di tutto e di più, su cui tanti altri blogger probabilmente posteranno. Io vi offro queste mie riflessioni, spero che vorrete leggerle con piacere]
Follia. È questo che pensavo più o meno tre anni fa mentre assistevo atterrito a quello accadeva a New york. Prima un momento di spaesamento di fronte a qualcosa che pareva proprio un film, poi la comprensione che era una immagine vera quella di un aereo infilato in un grattacielo. E poi il secondo aereo, la consapevolezza che non era un incidente; tentativo di spiegarmi cosa fosse accaduto; parole sconclusionate dalla tv; le Torri in diretta su tutti i canali come niente altro mai prima, perché questo è stato il primo grande evento storico del terzo millennio, il primo ad essere seguito in diretta in televisione da miliardi di spettatori. E poi la razionalità (l’unica cosa per mantenere un po’ di ordine in testa) e quindi la riflessione che la rivendicazione del Fronte per la Liberazione della Palestina che era stata data all’inizio molto difficilmente era credibile e il pensiero che molto probabilmente c’era Osama Bin Laden dietro, che da anni aveva dichiarato guerra all’America e all’Occidente.
In quel giorno, e nei giorni successivi, le interpretazioni di quell’evento si sono inseguite. E parlo dell’evento mediatico, del suo impatto sul nostro immaginario, della sua capacità di influenzare le nostre vite a partire dal nostro modo di interpretare il mondo. Le conseguenze storiche, politiche, economiche sono sotto gli occhi di tutti: sono stati scritti (e venduti) più libri su Bin Laden, sul fondamentalismo islamico, sull’Islam e sulle società islamiche, su Saddam Hussein, sull’11 settembre, contro l’America imperialista e a favore invece del suo diritto a difendersi con tutte le sue forze, di quanto verrà mai fatto in futuro. E non sono io a poter dire come il mondo sia cambiato: lo vediamo tutti i giorni, a partire da un concetto che ormai è entrato nelle nostre case prima, sempre attraverso la tv, e poi lo ritroveremo fra qualche anno sui libri di scuola per descrivere la dottrina Bush, guerra preventiva. E il nostro immaginario si arricchisce ancora di più, questa volta in negativo, perché se l’Occidente con la “O” maiuscola, inteso come Civiltà (“C” opposta a civiltà…) esiste, come sostengono i teorici dello scontro di civiltà, allora cosa abbiamo fatto di male noi per far parte di una Civiltà così?
Siamo costretti ad interrogarci. E non è mai un discorso semplice; ci si accapigliano sociologi, antropologi, storici e chi più ne ha più ne metta per definire cosa sia una civiltà (“c” minuscola, perché non intendo affatto quella sorta di monoblocco tutto uguale al suo interno di cui si parlava sopra). E il risultato di queste riflessioni spesso è macchiato da una visione ideologica, oppure da pregiudizi, oppure ancora da opportunismo in base al momento storico. Nei giorni immediatamente successivi all’11 settembre 2001 Umberto Eco pubblicò un articolo su Repubblica (Le guerre sante, passione e ragione, 5 ottobre 2001; smanettando sul sito di Repubblica forse lo trovate ancora in linea) che generò grande dibattito, un articolo sulla tolleranza, che è l’unica cosa che può fare incontrare le civiltà (ma poi anche sulla tolleranza storicamente, in filosofia e in sociologia è stato scritto tanto e si potrebbe discutere…).
Secondo Eco il discorso in chiave storica (del tipo la cultura araba del xiv-xv sec. ha prodotto questo e quello, la cultura occidentale ha partorito l’Inquisizione, Hitler e Stalin, però gli arabi hanno avuto il Saladino, l’Occidente ha sviluppato le democrazie, ecc.) non serve perché andando a scavare troveremo magagne e aspetti positivi in tutte le civiltà. Il problema è che spesso di usano dei parametri (sociali, culturali, tecnologici, ecc.) per cui qualcuno troverà sempre il modo di girare il discorso in base alla propria idea (accettazione e apertura vs razzismo e pregiudizi).
Eco suggerisce allora di educare alla tolleranza delle diversità. Si tratta di insegnare l’accetazione delle differenze fin da bambini, di spiegare loro che le nostre culture sono diverse e perché, ma che queste diversità possono essere una ricchezza, che ci sono comunque delle somiglianze. «Il parametro della tolleranza della diversità è certamente uno dei più forti e dei meno discutibili, e noi giudichiamo matura la nostra cultura perché sa tollerare la diversità, e barbari quegli stessi appartenenti alla nostra cultura che non la tollerano».
Ho fatto questa parentesi perché lasciando da parte tutti i discorsi politici e sociologici questo invito alla tolleranza di Eco mi sembra quanto di più corretto possa esserci. Perché un altro 11 settembre non accada più.
La tolleranza potrebbe (dovrebbe) essere quindi la direttrice da seguire per dare la giusta rotta al nostro immaginario post-11 settembre. Il dialogo, il tentativo di comprensione reciproca sono troppo importanti. Quella data oggi ha cambiato il mondo (quante volte si è detto che il mondo è cambiato?) ma in peggio, perché ha inasprito lo scontro, perché ha creato una situazione di guerra permanente in cui neanche volontari della Croce Rossa o di ONG possono stare tranquilli, loro che sulla tolleranza hanno costruito le loro vite. È ora di far sì che fra cento anni si possa dire che il mondo sia cambiato in meglio. È una utopia, lo so, però lasciatemi credere a ciò.
Il nostro immaginario post-11 settembre è stato e rimarrà influenzato da quelle immagini che tutti abbiamo visto in diretta, lo schianto del secondo aereo, il fuoco, la gente che si buttava dalle finestre, e poi il crollo delle due torri, una dopo l’altra, come fragili castelli di carta. E si è detto talmente tante di quelle volte che ora tutti ti ricordano come sembrasse un film, come non poteva essere vera una cosa del genere.
Questo perché il nostro è un immaginario filmico e televisivo, al punto che per collocare nella nostra testa un evento del genere dove non sia troppo inspiegabile e terrorizzante dobbiamo ricorrere all’idea che cose così le avevamo viste solo al cinema.
E a proposito di cinema, a me vengono in mente quei film pre e post 11 settembre dove ci sono, oppure non ci sono più le Torri Gemelle. Perché ogni volta che guardo un film ambientato nella Grande Mela ci penso, l’occhio mi cade sempre sulla skyline della città.
Penso a Manhattan, di Woody Allen, probabilmente uno dei film più belli girati a New York, e soprattutto su New York, perché la città in quel film è la vera protagonista, è il personaggio intorno a cui girano tutti gli altri. E il World Trade Center è lì che svetta quando si vede il profilo della città.
Penso ad un film uscito poco dopo la tragedia, Gangs of New York di Martin Scorsese, in cui nella scena finale si vede la città moderna senza Torri, o meglio le torri ci sono ma sono in trasparenza.
Penso ad un capolavoro come La 25a ora di Spike Lee, sicuramente uno dei film migliori degli ultimi anni, e quello che più di tutti vi fa capire che ferita si sia aperta a Ground Zero per la città e per i newyorkesi. E memorabile è, a livello puramente filmico oltre che emotivo, la scena in cui si vede Ground Zero dall’alto di notte, con le ruspe che scavano (oltre a quella del monologo di Edward Norton di fronte allo specchio). Ma anche nel film di Spike Lee come in quello di Allen la città è la vera protagonista, con le sue mille razze, con i suoi dieci milioni di abitanti la cui vita è cambiata per sempre.
E infine mi viene in mente 1997: fuga da New York di John Carpenter, film del 1981 o giù di lì. Qui la città è stata trasformata in una colonia penale recintata da alte mura per non far scappare i detenuti. È una città in degrado perché non c’è più una amministrazione a tenerla pulita ed efficiente, dove niente è come nella New York che siamo abituati a vedere nei film, niente è riconoscibile tranne, appunto, le Torri Gemelle che svettano alte e su cui atterra col suo aliante Jena Pliskeen (il memorabile ex-militare, mercenario, ribelle al sistema degli USA trasformati in un regime di polizia interpretato da Kurt Russel).